“Vendere cannabis light è illegale”  

Pubblicato il: 11/07/2019 20:26

La cessione, la vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa deve considerarsi reato, “salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante“. Così le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione nelle motivazioni della sentenza del 30 maggio 2019, con la quale hanno stabilito che la commercializzazione di cannabis sativa L e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016, grazie alla quale sono nati in Italia i Cannabis shop. “Ciò che occorre verificare – sottolineano le Sezioni Unite – non è la percentuale di principio attivo contenuto nella sostanza ceduta, bensì l’idoneità della medesima sostanza a produrre, in concreto, un effetto drogante”.

“La legge n. 242 del 2016 – spiega in particolare la Cassazione nelle motivazioni – è volta a promuovere la coltivazione agroindustriale di canapa delle varietà ammesse (cannabis sativa L.}, coltivazione che beneficia dei contributi dell’Unione europea, ove il coltivatore dimostri di avere impiantato sementi ammesse; si tratta di coltivazione consentita senza necessità di autorizzazione ma dalla stessa possono essere ottenuti esclusivamente i prodotti tassativamente indicati dall’art. 2, comma 2, della legge n. 242 del 2016 (esemplificando: dalla coltivazione della canapa di cui si tratta possono ricavarsi fibre e carburanti, ma non hashish e marijuana}'”. Per questo, aggiunge, “la commercializzazione di cannabis sativa L. o dei suoi derivati, diversi da quelli elencati dalla legge del 2016, integra il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/1990, anche se il contenuto di THC sia inferiore alle concentrazioni indicate all’art. 4, commi 5 e 7 della legge del 2016”.

In particolare, l’art. 73 “incrimina la commercializzazione di foglie, infiorescenze, olio e resina, derivati della cannabis, senza operare alcuna distinzione rispetto alla percentuale di THC che deve essere presente in tali prodotti, attesa la richiamata nozione legale di sostanza stupefacente”. Pertanto, “impiegando il lessico corrente, deve rilevarsi che la cessione, la messa in vendita ovvero la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, di prodotti – diversi da quelli espressamente consentiti dalla legge n. 242 del 2016 – derivati dalla coltivazione della cosiddetta cannabis tight, integra gli estremi del reato ex art. 73, T.U. stupefacenti”.

Analizzando la specifica questione della eventuale inoffensività della cosiddetta coltivazione domestica di cannabis, le Sezioni Unite hanno poi affermato “che è indispensabile che il giudice di merito verifichi la concreta offensività della condotta, riferita alla idoneità della sostanza a produrre un effetto drogante”, richiamando “principi recentemente ribaditi dalla Corte Costituzionale”, che ha sottolineato “la validità del canone ermeneutico fondato sul principio di offensività, operante anche sul piano concreto, nel momento in cui il giudice procede alla verifica della rilevanza penale di una determinata condotta”.