Trump e la mania dei dazi, tra imposizioni e rinvii  

Trump e la mania dei dazi, tra imposizioni e rinvii

(Afp)

Pubblicato il: 14/08/2019 14:20

“I am a Tariff Man”. Così Donald Trump si descriveva come una sorta di ‘super eroe dei dazi’ in un tweet dello scorso dicembre in cui rivendicava il successo della sua missione per rendere “l’America di nuovo ricca”, brandendo la semplice, e tremenda, arma dei dazi contro i Paesi che “vengono a razziare la grande ricchezza della nostra nazione”.

Un messaggio elettorale che si è dimostrato vincente nel 2016 ma che in questi due anni e mezzo di presidenza Trump si è trasformato in quella che Newsweek qualche mese fa definiva la “vacua ossessione per i dazi” di un presidente che ha avviato, scriveva due giorni fa il New York Times, “la follia di una guerra commerciale” con la Cina. Mentre ne minaccia costantemente un’altra con la Ue, tradizionale alleato e naturale partner degli Usa ora considerato come un competitore strategico, tra annunci, decisioni e marce indietro.

Come la marcia indietro fatta ieri dalla sua amministrazione rispetto ai nuovi dazi sulle importazioni cinesi che il primo agosto scorso Trump, sempre via Twitter, aveva dato per certi e decisi a partire dal primo settembre prossimo. Ora non scatteranno prima del 15 dicembre i nuovi dazi del 10% su 300 miliardi di import cinese, tra i quali, per la prima volta, figurano prodotti destinati ai consumatori come cellulari, materiale tecnologico, giochi ed articoli di abbigliamento.

La prospettiva di questa nuova escalation della guerra commerciale con Pechino – avviata la scorsa estate con l’imposizione di dazi del 25% su 200 miliardi di importazioni destinate all’industria – da giorni stava creando agitazione e preoccupazione a Wall Street. “La paura che la guerra commerciale possa innescare la recessione sta crescendo”, ha scritto domenica scorsa il capo economista della Goldman Sachs, Jan Hatzius.

Non stupisce che quindi l’annuncio anche solo dello stop provvisorio delle tariffe per i cellulari ed il materiale tecnologico ha creato entusiasmo a Wall Street, dove gli indici sono volati recuperando le perdite dei giorni precedenti. Anche perché, commentando l’annuncio con i giornalisti, Trump ha ammesso che si è deciso di rinviare le tariffe “per lo shopping di Natale, dal momento che avrebbero potuto avere un impatto sui consumatori”.

E gli analisti hanno subito letto tra le righe della dichiarazione del presidente che finora ha sempre ostinatamente negato che la sua politica protezionista stia penalizzando l’economia americana. Con il suo rinvio l’amministrazione ha “tacitamente ammesso che sono i consumatori a pagare per i dazi e non i produttori cinesi”, spiega Ryan Young, analista del Competitive Enterprise Institute.

Trump comunque ha ribadito la sua convinzione che “finora non abbiamo avuto praticamente” nessuna conseguenza negativa per economia e consumatori americani. “L’unico impatto è che abbiamo guadagnato 60 miliardi dalla Cina, con i complimenti dei cinesi”, ha aggiunto. Un mantra che il tycoon diventato presidente continua a ripetere da mesi, sordo al coro unanime che arriva dal mondo del business, associazioni di consumatori ed economisti, che indicano il contrario.

Bob Woodward in “Paura: Trump alla Casa Bianca”, il suo libro inchiesta sul primo anno della presidenza Trump, dà una spiegazione allarmante dell’ossessione di Trump per i dazi: secondo il giornalista del Watergate, Trump non comprenderebbe come in ultima analisi il peso delle tariffe ricada sui prezzi dei prodotti e quindi inneschi un impatto negativo sull’economia americana.

Nel libro, Woodward descrive la battaglia combattuta, e persa, alla Casa Bianca da Gary Cohn, il banchiere nominato consigliere economico della Casa Bianca all’inizio della presidenza Trump, contro l’irrefrenabile ossessione del presidente per i dazi. Tra gli aneddoti riportati nel libro, quello di quando Cohn andò dal presidente vantando “i migliori dati dell’occupazione mai visti” e Trump nel congratularsi disse: “E’ tutto grazie ai miei dazi, stanno funzionando”. Ma in realtà le tariffe non erano ancora entrate in vigore.

L’ex presidente di Goldman Sachs, convinto assertore del principio, da sempre caro ai repubblicani del libero mercato, per mesi ha combattuto contro le tendenze protezioniste di Trump. E per molti mesi, spalleggiato da altri esponenti del grande business cooptati da Trump, Cohn è riuscito a tenere botta, a spingere Trump a rallentamenti e marce indietro. Ma alla fine il 6 marzo del 2018 ha lasciato la Casa Bianca, poche settimane prima dell’entrata in vigore della prima ondata di dazi, quelli sull’importazione di acciaio ed alluminio.

Intervistato dalla Bbc dopo l’annuncio dei nuovi dazi alla Cina da inizio mese, Cohn ha espresso la convinzione che la politica protezionista di Trump stia avendo “un netto impatto” negativo sull’industria manufatturiera americana. E per giunta i dazi non starebbero danneggiando per nulla la Cina, anzi avrebbero fornito al governo cinese la possibilità di “rallentare un’economia troppo surriscaldata”.

Nella girandola di siluramenti e rinunce che hanno praticamente azzerato l’amministrazione Trump originaria, si sono allontanate anche le altre voci critiche della politica protezionista. Rimane invece saldamente al suo posto di consigliere per il Commercio Peter Navarro, controverso economista con l’ossessione della Cina – tra i suoi libri spicca il titolo “Death by China” – la riduzione del deficit commerciale ed il pericolo della Germania. Insomma, tutti temi cari all’armamentario retorico di Trump.

“Noi amiamo i dazi, i dazi sono una cosa bellissima”, affermava serenamente Navarro il primo agosto scorso intervistato da Fox News sulle nuove tariffe che, secondo uno studio della Tax Foundation, una volta entrate in vigore potrebbero costare in media 350 dollari a famiglia americana. Dati troppo allarmanti, in un’America praticamente già entrata in campagna elettorale per il 2020, per non imporre uno stop. “Trump non vuole essere il Grinch che ruba il Natale“, sintetizza con un’immagine Phil Levy, ex economista dell’amministrazione di George Bush.