Lirica: Carrasco firma ‘Le vepres siciliennes’ al femminile all’Opera di Roma 

Carrasco legge 'al femminile' 'Les vepres siciliennes' all'Opera di Roma

Roiberta Mantegna in una scena de ‘Les vepres siciliennes’ (foto Yasuko Kageyama)

Pubblicato il: 11/12/2019 19:26

Una chiave di lettura ‘al femminile’ quella che la regista argentina Valentina Carrasco dà di ‘Les vepres siciliennes’, il grand-opera di Giuseppe Verdi che ieri sera ha aperto la stagione 2019-2020 del Teatro dell’Opera di Roma. Sul podio Daniele Gatti che per la prima volta ha affrontato la partitura facendolo magistralmente, fin dalle prime battute della sinfonia, senza mai un cedimento dall’inizio alla fine e con una sicurezza nel rapporto con l’Orchestra e il Coro della fondazione lirica capitolina, quest’ultimo preparato da Roberto Gabbiani, che si è tradotto in una perfetta connessione tra buca e palcoscenico e in un interminabile scrosciante applauso alla fine dei cinque atti (e delle quasi cinque ore di spettacolo) che ha coperto i pochi ‘buu’ arrivati dal loggione e destinati alla regista.

La Carrasco rende evidente il tema della violenza sulle donne, ben presente nell’opera di Verdi dove fin dall’inizio i francesi oppressori cantano: “Non è forse vero che qui tutte le donne ci appartengono?”. E di conseguenza nella scena del II atto in cui si celebrano le nozze delle 12 coppie di fidanzati, i soldati invasori invece di rapire le fanciulle, come indicato nel libretto di Eugène Scribe e Charles Duveyrier, le stuprano. La regista inoltre sposta l’azione dalla Palermo del 1282, quando avvenne la rivolta dei Vespri contro i francesi di Carlo d’Angiò, agli anni ’40 del ‘900 dove gli oppressori indossano divise simili a quelle franchiste.

Cosa che fa storcere il naso ai soliti sostenitori delle regie ‘tradizionali’, senza sapere peraltro che l’opera, scritta per Parigi dove andò in scena nel giugno del 1855, al suo approdo in Italia, al Regio di Parma, nel dicembre dello stesso anno, per ragioni di censura fu ribattezzata ‘Giovanna di Guzman’ e l’azione fu spostata in Portogallo. A Verdi interessavano i contenuti da veicolare e poco la fedeltà ai contesti storici dei libretti. In una lettera del 1854 inviata al musicista Cesare De Sanctis, auspicava anche “un melodramma vasto, potente, libero d’ogni convenzione, vario, che unisca tutti gli elementi e soprattutto nuovo!!”.

La Carrasco nella sua lettura è sostenuta dalle potenti scene di Richard Peduzzi, storico collaboratore fin dalla fine degli anni ’60 di Patrice Chereau (è stato lui a realizzare le scenografie del celebre ‘Ring’ wagneriano di Bayreuth diretto da Pierre Boulez) e qui al suo debutto romano, nonostante sia stato direttore dell’Accademia di Francia a Roma dal 2002 al 2008. Peduzzi realizza una città di pietra grigia, una cava di pietra che è l’anima della terra, le cui risorse vengono depredate dall’oppressore, esattamente come le donne,e che alla fine si stringe attorno agli invasori schiacciandoli. Valentina Carrasco approfondisce e chiarisce la sua visione dell’opera di Verdi anche nel lungo (30 minuti) balletto del III atto, dal titolo ‘Le quattro stagioni’, di cui cura le coreografie insieme a Massimiliano Volpini.

Qui spariscono bagnanti, satiri e ninfe e la Carrasco riesce nell’impresa di evitare quello che era il terrore dei compositori italiani, Verdi in testa, quando erano costretti a inserire i balletti nelle opere destinate a Parigi: interrompere l’azione drammatica. La regista invece costruisce una narrazione che rivela e approfondisce la psicologia dei personaggi. Il tema della violenza sulle donne ritorna, e c’è anche una citazione di Pina Bausch nel momento in cui le fanciulle giocano a tirarsi secchiate d’acqua addosso, dopo il rito purificatorio della pulizia dalle macchie dello stupro.

Ma è in questo balletto, ‘buato’ da alcuni loggionisti, che la Carrasco ‘spiega’ la lotta interiore del ‘cattivo’ Guy de Monfort tra il suo ruolo di potente dominatore e l’amore per il figlio Henry, che scopre appunto di essere figlio del cattivo, frutto di un abuso, e viene consolato dal fantasma della madre morta. Ma anche il dramma di Henry combattuto tra l’amore paterno e quello per la duchessa Hélène, che insieme a Jean Procida guida la rivolta contro gli oppressori.

Applausi senza indugi sono invece andati al cast, tutto al debutto con il titolo in francese, a cominciare dalla giovane protagonista, il soprano palermitano Roberta Mantegna, che dopo qualche incertezza nel primo atto, ha sfoderato una voce di velluto capace di pianissimi e morbidezze inusuali. Applauditi anche il baritono Roberto Frontali (Monfort), il tenore John Osborne (Henry) e il basso Michele Pertusi (Procida). Si replica fino a domenica 22 dicembre.