“Noi denunceremo”, la Val Seriana cerca la verità sulla strage coronavirus 

Noi denunceremo, la Val Seriana cerca la verità sulla strage coronavirus

(Fotogramma)

Pubblicato il: 10/06/2020 22:28

L’Italia che ritorna in libertà, prova ad affacciarsi con ottimismo alla finestra dell’estate mitigata dal calo dei contagi e delle restrizioni, non può fare finta di non vedere la richiesta di verità e la domanda di giustizia che arrivano dalle zone più colpite dall’epidemia e ci accompagneranno negli anni a venire.

A Bergamo e provincia, si legge su notizie.it, nasce il comitato “Noi denunceremo, verità e giustizia per le vittime del Covid19”, composto da 55mila familiari, che impone la necessità di porsi delle domande sulle ferite aperte e che oggi presenta le prime 50 denunce presso la procura di Bergamo. Il gruppo ha raccolto circa 30.000 storie, è nato spontaneamente tra i familiari delle vittime del territorio che da Bergamo sale fino alle vette alpine della Val Seriana. Sono determinati a non fermarsi fino a quando non sarà accertato perché una delle zone più prospere d’Italia e d’Europa si è trovata impreparata a fronteggiare la pandemia.

“Le nostre denunce sono tutte contro ignoti. Sarà la magistratura a dover dire se ci sono dei reati all’interno delle nostre storie. Noi ci limitiamo a raccontare ciò che è successo”. Luca Fusco è il presidente del comitato, un commercialista 58enne di Brusaporto, in provincia di Bergamo. Ha perso il padre Antonio, di 85 anni: non sa nemmeno se le ceneri che gli hanno restituito siano davvero quelle del padre, pare siano state trasportate in due diverse città, anzi in due diverse regioni dopo il decesso.

In queste zone, tutte le storie hanno una trama simile, come in una serie tv dell’orrore che si ripete di comune in comune, non c’è una persona che non abbia un parente, un amico, un conoscente morto. Malati di polmonite spesso abbandonati in casa con le loro famiglie, difficoltà di ricovero, nessuna assistenza domiciliare, quasi sempre senza tampone. “Ci siamo ritrovati una montagna di casi di persone lasciate a casa per 15-20 giorni con polmoniti, perché il sistema sanitario non aveva più posti letto in ospedale” dice Fusco a Notizie.it.

Cristina Longhini è una farmacista di 39 anni, il padre morto a 65 per Covid. Prima curato a casa con antibiotici e fermenti, poi ricoverato all’ospedale Papa Giovanni XXIII quando la situazione si è aggravata. Non è stato soccorso da un medico di base, ma da un medico volontario che ha chiamato l’ambulanza. In ospedale la diagnosi di polmonite e il casco di ossigeno per tentare di salvarlo. Per una settimana la figlia non riceve notizie, poi dall’ospedale chiedono alla famiglia di aiutarli a trovare un posto di terapia intensiva in altre strutture. Ricerca vana. “Suo padre morirà tra qualche ora”, le dicono al telefono. E si dimenticano di avvertirla quando succede. Numeri da chiamare, l’impossibilità di vedere i propri cari, salutare, toccargli la mano, pochi secondi al telefono se rispondono per avere notizie.

“Vogliamo sapere di chi siano le responsabilità delle negligenze a livello sia sanitario che amministrativo” dice Longhini a Notizie.it. “Il perché della mancata zona rossa e di tutto quello che ha messo in ginocchio Bergamo e provincia. Come farmacista mi ha colpito la gestione scellerata, ci siamo trovati a contatto con pazienti Covid senza mascherina, senza barriera e senza guanti. Sia io che mia madre come operatrici sanitarie. Mia madre si ammala sul lavoro e probabilmente contagia mio padre in casa”. E così si scopre che non tutta l’Italia chiusa in blocco era uguale, non è andato “tutto bene” per tutti. C’era l’Italia frustrata di non poter vivere lavorare uscire – spesso con ragioni economiche degnissime – ma in altre zone c’era l’Italia dove si giocava tra la vita e la morte. Dove persone hanno perso i loro cari senza nemmeno un saluto. Dove non c’era più posto per le bare. Dove le vittime segnavano numeri da guerra. E dove l’inverno – mentre il resto d’Italia riapre – non è passato.