Libri: carcere e ‘diritto umano alla speranza’, il ‘viaggio’ di Nessuno tocchi Caino 

Carcere e 'diritto umano alla speranza', il 'viaggio' di Nessuno tocchi Caino

Pubblicato il: 23/08/2020 17:22

Si intitola “Il viaggio della speranza” ed è il racconto dell’VIII congresso di Nessuno tocchi Caino, la lega internazionale di cittadini e di parlamentari per l’abolizione della pena di morte nel mondo, che si è tenuto a Milano, nel carcere di Opera, lo scorso dicembre. Il volume (ed. Reality Book) è stato distribuito agli iscritti dell’associazione ed è anche acquistabile sul sito: è un viaggio ideale che esplora la traversata dal dolore al cambiamento, che va a fondo nel sistema carcerario alla luce delle sentenze dei giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo.

Immagini, parole (una sessantina di interventi) e atti che raccontano le carceri italiane e le loro contraddizioni, una sorta di “non luogo” in cui “finiscono i diritti”, nonostante il dettato dell’articolo 27 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”). E sono testimonianze nelle quali ricorrono due motti: “nessuno tocchi Caino”, che dà il nome all’associazione, e “spes contra spem”.

Il primo, dice Sergio D’Elia, segretario dell’associazione, “è rivolto allo Stato, al Potere che cede, degrada alla aberrante, violenta logica dell’emergenza per la quale, nel nome di Abele, per difendere Abele, diventa esso stesso Caino, uno Stato-Caino che pratica la pena di morte, la pena fino alla morte e la morte per pena”. Il secondo, aggiunge D’Elia, “è rivolto a Caino, al condannato che decide di cambiare se stesso, convertire la sua vita dal male al bene, dalla violenza alla non violenza, perché sia appunto il cambiamento del suo modo d’essere profetico del cambiamento del mondo in cui vive, dell’ambiente in cui vive, del carcere in cui vive, del magistrato da cui dipende”.

Si dibatte sul futuro del sistema carcerario, nella speranza che un giorno si arrivi ad avere “non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale”, come auspicava Aldo Moro. “Io sono profondamente convinto che il carcere non abbia nessuna ragione di esistere – dice nel suo intervento Roberto Rampi, senatore del Pd – ne sono profondamente convinto, sono convinto che il carcere sia un’invenzione degli uomini e che nasce in un tempo e che, come è nata in quel tempo, ci sarà un tempo in cui finirà. Verrà un giorno in cui guarderemo al fatto che delle persone tenevano altre in un carcere esattamente come potremmo guardare oggi a certe forme di tortura, a certe forme di schiavitù. Come qualcosa di lontano che appartiene al passato e che è incomprensibile”.

Immaginare uno Stato senza carcere è già possibile. Ne è convinto Giuseppe Morganti, parlamentare di San Marino che ha proposto di fare della piccola repubblica il primo Stato che abolisce la prigione: “L’obiettivo di uno Stato senza carcere prevede l’attivazione di politiche che richiedono investimenti in posti di lavoro, istruzione, alloggi, assistenza psicologica e sanitaria, tutti elementi indispensabili in una normale società che intende liberarsi dalla violenza”.

Si va poi dall’intervento di Gherardo Colombo, che solleva dubbi sulla compatibilità di un diritto penale sorto durante il fascismo con i principi costituzionali, fino a quello di Francesca Mambro: “Uno Stato che riaccoglie e pacifica è uno Stato che non ha bisogno di dimostrare la sua forza perché è Giusto e Libero e in tal modo questo esercita la sua Signoria, tanto che può permettersi di non abbandonare nessuno. Un concetto a me molto chiaro, sia per esperienza personale che per la mia attività con Nessuno tocchi Caino, è che ogni essere umano se trattato male e lasciato senza speranza non può che peggiorare. Noi tutti, e non solo antropologicamente, siamo trasmissione di valori che si sono sedimentati nel tempo. Riconoscere la dignità della persona vuol dire riconoscere l’altro ed essere in una forma continua di dialogo come esseri umani. Questo dialogo fa sì che il mondo sia umano non perché la voce degli uomini risuona in esso, ma per esserne divenuto l’oggetto. Essere speranza, migliorare le condizioni di detenzione, non diminuisce la gravità della colpa, la pena comminata e quella espiata”.

“La vendetta che sembra incantarci – ha aggiunto Mambro – è una punizione eterna per chi la riceve e per chi la pratica e non c’è difesa che possa mettere al riparo l’individuo e la comunità da una sorte che fa rivivere il male e cristallizza il dolore, come non vi è riparo dalle tetragone certezze che nemmeno per un attimo fanno balenare l’esistenza del dubbio”.

Ai contributi di questo fronte trasversale che si interroga su un carcere in cui possa entrare “il diritto umano alla speranza” si alternano le testimonianze dei detenuti di Opera, artefici del proprio cambiamento, e di altri ex detenuti. Emozionante è l’incontro tra Stefano Castellino, sindaco del comune siciliano di Palma di Montechiaro, che a 18 anni perse lo zio assassinato dalla criminalità organizzata, con quattro concittadini in carcere a Opera per delitti mafiosi.

Fino all’esperienza di Antonio Aparo, che è stato in regime di 41-bis per 28 anni, il ‘carcere duro’ che finisce per creare altre vittime, i familiari dei detenuti: “In trent’anni il trattamento nel regime penitenziario per me che mi trovavo al 41-bis è stato di poter usufruire di 15 giorni, che significa 360 ore, con i familiari. Visto che spesso si è detenuti a mille chilometri, non tutti possono usufruire di un’ora di colloquio mensile, quindi al massimo si fanno due o tre ore di colloquio all’anno. Quindi da 360 scendiamo a circa 90 ore di colloquio in 30 anni, pari a circa 4 giorni di colloquio in trent’anni… Qui ci viene in soccorso il telefono: dal 1986 fino al 2000 erano 6 minuti al mese che sostituivano il colloquio impossibile. Così si baratta un po’ la situazione. Poi sono diventati 10 minuti al mese. In un anno si raggiunge la famiglia per un’ora e mezzo. Quindici ore di telefonate, dieci anni. In trent’anni più o meno 45 ore perché se non si fa colloquio, c’è la telefonata. Quindi in trent’anni ci viene concesso di avere i contatti con gli affetti circa 6 giorni. Cos’è la rieducazione in questo senso? Mi chiedo come ex 41-bis…”.

Poi ha concluso: “Quando sono stato arrestato avevo vivi alcuni miei familiari – si commuove – anche qualche mia sorella. Oggi non ci sono più – fatica a parlare per l’emozione – non mi hanno dato nemmeno il permesso per andarli a vedere. Sarà una mia colpa, è vero, io ho sbagliato, l’ho sempre ammesso e sono qua. Però che c’entra trattare i familiari in modo disumano?“.