100 anni fa la scissione dal Psi, nasce il nuovo partito di Bordiga e Gramsci

Roma, 17 gen. – (Adnkronos)

La nascita del Partito comunista italiano avvenne 100 anni fa, passando alla storia come la ‘scissione di Livorno’. Durante il XVII Congresso del Partito socialista Italiano, che si tenne nella città della costa toscana presso il teatro Goldoni dal 15 al 21 gennaio 1921, con la partecipazione di 2.500 delegati, la corrente comunista guidata da Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci, abbandonò i compagni e si trasferì nel teatro San Marco dove procedette alla fondazione del Partito comunista d’Italia, sezione della III Internazionale (21 gennaio).

Mantenne la denominazione di Partito comunista d’Italia – Sezione italiana dell’Internazionale comunista fino al giugno 1943, quando fu modificata in Partito comunista italiano.

I primi anni di vita del nuovo partito politico furono caratterizzati da una parte dalla sconfitta del movimento operaio e dalla reazione fascista, dall’altro dal rapido spostarsi del gruppo dirigente, guidato da Bordiga, sulle posizioni dell’ala sinistra dell’Internazionale. Ciò determinò il diversificarsi delle posizioni all’interno del partito e la decisione dell’Internazionale (1923) di sostituire la direzione bordighiana con un esecutivo che includesse l’opposizione di destra. Protagonista della bolscevizzazione fu Gramsci, che diede avvio a un nuovo corso (sancito dal congresso di Lione del 1926) e consolidò la presenza del partito nella società. Con la promulgazione delle “leggi speciali” e l’arresto di Gramsci (8 novembre 1926), il PCd’I entrò nella clandestinità.

Gli anni tra il 1927 e il 1943, a causa della repressione del regime fascista, segnarono per i militanti la stretta tra la clandestinità e l’esilio, soprattutto in Francia, dove il PCd’I fu presente nella concentrazione antifascista (strinse nel 1934 un patto di unità d’azione con il Psi, mantenuto fino al 1956).

Nel 1927 la direzione del partito fu di fatto trasferita a Mosca, dove emerse il nuovo gruppo dirigente attorno a Palmiro Togliatti. Il partito tornò sulla scena politica nazionale dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, svolgendo un ruolo importante nella lotta contro il nazifascismo.

La ridefinizione della linea del partito ebbe luogo a partire dal ritorno di Togliatti in Italia (marzo 1944), con la cosiddetta ‘svolta di Salerno’: messa provvisoriamente da parte la pregiudiziale repubblicana, il segretario comunista indicò al partito l’unità antifascista come premessa di un radicamento nella società che sarebbe scaturita dalla liberazione.

L’idea guida di Togliatti era che la trasformazione socialista dell’Italia non dovesse avvenire per via rivoluzionaria bensì attraverso la progressiva ascesa delle masse popolari al governo della cosa pubblica. Conseguentemente il Pci fece parte dei governi dell’Italia democratica fin dal Regno del Sud e, dopo la liberazione, partecipò alla ricostruzione economica e politica ed estese la sua influenza nella società attraverso una capillare rete di sezioni territoriali; ebbe una cospicua presenza nella maggiore organizzazione sindacale (Cgil), dispose di un diffuso organo di stampa (“l’Unità”), e fu costantemente presente negli enti locali.

Escluso dal governo, insieme con il Psi, nel 1947, il Pci costituì da allora la maggiore forza politica di opposizione. La denuncia dello stalinismo operata da Nikita Krusciov nel XX congresso del Pcus e l’invasione sovietica dell’Ungheria (1956) costrinsero il Pci a un’ampia riflessione sulla propria strategia e sul socialismo realizzato: nell’VIII congresso (1956) il partito iniziò a prendere le distanze dall’unitarismo di stampo sovietico prevalente nel movimento comunismo mondiale, accentuando sul piano della politica interna gli aspetti democratici e gradualisti già presenti nell’elaborazione togliattiana (“via italiana al socialismo”).

Con Luigi Longo, che successe alla segreteria del partito alla morte di Togliatti (1964), il Pci colse il successo del 26,9% nelle elezioni del 1968. La stagione delle lotte operaie e il processo di unità sindacale, nonché lo spostamento a sinistra della pubblica opinione, determinarono nei primi anni Settanta nuove attenzioni e aspettative verso la politica del Pci, cui il nuovo segretario Enrico Berlinguer rispose con la strategia del ‘compromesso storico’ (1973), una proposta di collaborazione con le forze cattoliche e socialiste per il rinnovamento del paese.

La proposta, dopo le ulteriori affermazioni elettorali del Pci (tra queste, il 34,4% nel 1976), si concretizzò dapprima nell’accordo sull’astensione al governo presieduto da Giulio Andreotti (1976), poi sul voto al nuovo monocolore Andreotti, inaugurato nel giorno del rapimento dello statista democristiano Aldo Moro, il 16 marzo 1978, da parte dei terroristi delle Brigate Rosse.

La fase di “solidarietà nazionale” ebbe termine nel 1979 con la decisione comunista di uscire dalla maggioranza, mentre iniziava un trend elettorale negativo. Sul terreno internazionale, l’invasione sovietica dell’Afghanistan (1979) e la proclamazione della legge marziale in Polonia (1981) segnarono un’ulteriore differenziazione dall’Urss (già nettamente criticato per l’intervento in Cecoslovacchia nel 1968), con la dichiarazione di Berlinguer circa l’esaurimento della “spinta propulsiva” della rivoluzione sovietica (1981) e la sottolineatura del nesso necessario fra democrazia e socialismo.

Nel 1984 moriva Berlinguer, cui seguì nella carica di segretario generale Alessandro Natta. Il dato elettorale continuò a evidenziare una fase di grave difficoltà con un calo di consensi al 26,6% nel 1987. Anche in seguito al crollo del comunismo nei paesi dell’Est europeo il Pci, sotto la guida di Achille Occhetto avviò una profonda fase di trasformazione, culminata nel 1991 nello scioglimento del partito (il congresso si tenne a Rimini dal 31 gennaio al 3 febbraio) e nella contestuale costituzione del Partito democratico della sinistra. L’ala più intransigente, contraria al cambiamento, diede vita al Partito della rifondazione comunista.