Regeni e Zaki, tra silenzi e reticenze ancora nessuna giustizia 

(Adnkronos)

Due ferite ancora aperte. Due casi senza giustizia che gettano ombre sui rapporti tra Italia e Egitto. Giulio Regeni e Patrick Zaki sono i ‘simboli’ loro malgrado di un Paese che a 10 anni dalla “giornata della collera” di Piazza Tahrir, che scatenò la rivolta contro il regime di Mubarak, non ha preso con convinzione la strada della democrazia e del rispetto dei diritti umani, come evidenziato in più occasioni da Amnesty International. Tra omissioni e silenzi imbarazzanti, le autorità egiziane finora si sono mostrate sempre reticenti nei confronti dell’Italia, che mantiene aperti i canali diplomatici e continua a fare affari con Il Cairo, pur continuando a chiedere senza sosta giustizia per i due studenti.

I casi Regeni e Zaki sono il chiaro esempio dei sistematici abusi dei diritti umani sotto la presidenza al-Sisi che più voci hanno denunciato. Una risoluzione approvata dal Parlamento europeo il mese scorso ha citato esplicitamente l’uccisione del dottorando di Cambridge e la detenzione dello studente dell’Alma Mater di Bologna. La ricerca della verità sull’omicidio del ricercatore italiano è stata definita “un dovere imperativo delle istituzioni nazionali e dell’Ue” e su Zaki è stato denunciato l’“arresto arbitrario” e le “torture con scariche elettriche” che gli sono state inflitte in carcere.

Nella risoluzione si è puntato il dito anche sulla drammatica situazione generale riguardo le libertà personali, sottolineando le “detenzioni, minacce e intimidazioni” nei confronti dei giornalisti da parte del regime e gli arresti di “decine di migliaia di difensori dei diritti umani”, a partire dai tre dirigenti dell’Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr), l’ong con cui lo studente collaborava, e per i quali le stesse Nazioni Unite avevano espresso “forte preoccupazione” prima del loro rilascio.

Nonostante i numerosi appelli e iniziative del governo italiano, di politici, attivisti e associazioni, da mesi si susseguono le udienze in cui ogni volta viene rinnovata la detenzione preventiva di Zaki. L’ultima doccia gelata sulle speranze di rivederlo libero è arrivata il 19, con l’annuncio che lo studente resterà in carcere per almeno altri 15 giorni. Zaki, arrestato all’aeroporto del Cairo il 7 febbraio dello scorso anno e detenuto nel famigerato carcere di Tora, è provato psicologicamente e fisicamente, come hanno denunciato i legali ed i familiari che raramente lo hanno potuto incontrare in prigione.

“Ho ancora problemi alla schiena e ho bisogno di forti antidolorifici e di qualcosa per dormire meglio”, era il grido d’aiuto di Zaki diffuso alcune settimane fa dagli attivisti della pagina Facebook ‘Patrick Libero’. “Dite a tutti che sono in carcere perché difendo i diritti umani“, chiarì lo studente in un nuovo messaggio per Natale.

Sono invece passati cinque anni dal rapimento di Regeni, vittima di indicibili torture e poi assassinato. Cinque anni di silenzi assordanti da parte del Cairo che, tra depistaggi e mancate risposte alla Procura di Roma che indaga sull’omicidio, non ha mai dimostrato di voler realmente raggiungere la verità su quanto accaduto in quei giorni a cavallo tra gennaio e febbraio del 2016 e che precedettero il ritrovamento del corpo straziato di Giulio lungo la strada che dalla capitale porta ad Alessandria.

Nei giorni scorsi la Procura di Roma, guidata da Michele Prestipino, ha chiesto il rinvio a giudizio per i quattro 007 egiziani coinvolti nell’inchiesta, con l’udienza preliminare che potrebbe essere fissata entro la fine della primavera.

Due vicende, quelle di Zaki e Regeni, che sono diverse e che pure appaiono unite da un filo rosso, quello delle violazioni sistematiche dei diritti umani in Egitto. Sempre Amnesty International ha denunciato che tra novembre e dicembre sono stati messi a morte nel Paese almeno 57 prigionieri, donne incluse, quasi il doppio delle 32 esecuzioni capitali registrate in tutto il 2019.

Questo bilancio già di per sé drammatico rischia di essere persino sottostimato, poiché le autorità egiziane non rendono noti i dati sulle esecuzioni e sul totale dei prigionieri nei bracci della morte e non danno preavviso a familiari e avvocati.