Caso Cucchi, i giudici: “Da medici colpa per imprudenza, imperizia e negligenza”  

(Adnkronos)

“I sanitari che operarono furono in colpa, per imprudenza, imperizia e negligenza non caratterizzabile in alcun modo e sotto alcun profilo come lieve”. È quanto si legge nelle motivazioni della sentenza del terzo processo d’Appello per la morte di Stefano Cucchi che il 14 novembre 2019 ha dichiarato il non doversi procedere per intervenuta prescrizione per 4 medici dell’ospedale Sandro Pertini e l’assoluzione per un quinto medico, tutti accusati di omicidio colposo.

I giudici puntano il dito in particolare contro la condotta attribuita ad Aldo Fierro, primario del reparto dove morì Cucchi il 22 ottobre del 2009. “Non ha organizzato il reparto di medicina protetta, non ha dettato delle linee guida cui uniformarsi in ipotesi di un paziente-detenuto oppositivo, non ha fornito indicazioni sul come atteggiarsi in simili casi, magari interloquendo con l’autorità giudiziaria” si legge. “Quella del Reparto è una situazione anarchica in cui ciascun medico segue proprie autonome e personali direttive” sottolineano i giudici.

“È indiscutibile – si legge – che Fierro fino al 21 ottobre non ebbe alcun contatto con il paziente e tuttavia la realtà che emerge dal complessivo accertamento istruttorio esperito è nel senso che presso il Reparto protetto del Pertini non vi era un protocollo terapeutico da seguire in presenza di un paziente oppositivo”. Fierro avrà avuto pure “molteplici impegni” da fronteggiare ma “il loro adempimento non può andare a detrimento dei suoi obblighi organizzativi del Reparto”.

“Prescrizione fallimento della giustizia”

“Una sentenza oramai sostanzialmente pletorica rispetto al caso, i cui termini di redazione delle motivazioni sono anche caduti nel drammatico periodo della vicenda Covid; un fallimento della giustizia, come sempre avviene allorché cada la mannaia della prescrizione ma anche un monito severo ed una occasione di riflessione per chiunque operi a contatto con i detenuti”.

Secondo i giudici, i detenuti non devono essere “considerati un semplice numero del procedimento, ma esseri umani, fors’anche alle volte sgradevoli, eppure sempre doverosamente meritevoli, proprio in ragione del loro stato detentivo di una attenzione anche superiore a quella dedicata ad un uomo libero nella persona, la cui dignità non perdono mai, pena la regressione a tempi oscuri oramai trascorsi”.

“Lo Stato non può disinteressarsi del detenuto”

“Lo Stato ha certamente il diritto di fare un prigioniero, ma non di disinteressarsene. Questo è il terreno del tutto trascurato, in cui una vicenda, dal punto di vista giudiziario banale (un arresto in tema di stupefacenti), volge in pochi giorni in tragedia”. È quanto si legge nelle motivazioni della sentenza del terzo processo d’Appello per la morte di Stefano Cucchi che il 14 novembre 2019 ha dichiarato il non doversi procedere per intervenuta prescrizione per 4 medici dell’ospedale Sandro Pertini e l’assoluzione per un quinto medico, tutti accusati di omicidio colposo.

“Cucchi – scrivono i giudici nelle 69 pagine di motivazioni – rappresentava indubbiamente un paziente di difficile approccio, probabilmente scarsamente disponibile all’interlocuzione, forse con venature antisociali, certamente oppositivo ed ancorato ad una caparbia ed infantile posizione di rifiuto dei trattamenti”. Secondo i giudici però “è troppo sbrigativo e troppo semplice affermare a questo punto che il paziente rifiutava le cure ed i trattamenti e quindi nulla può contestarsi ai sanitari”.

Siamo in presenza di “un festival di insipienze che deve aver prodotto una reazione – si legge – definiamola puerilmente sdegnata, da parte di un soggetto verosimilmente già portatore di proprie fragilità. Di qui il passo è breve: lasciarsi andare, optare per il tanto peggio tanto meglio per far nascere nelle persone che si reputano intimamente responsabili del suo stato il senso di colpa”.

“Non fu informato su sue condizioni e rischio salute”

“Cucchi – sottolineano ancora i magistrati – fu certamente sollecitato a nutrirsi e ad assumere bevande liquide, ma, verosimilmente non ricevette mai né da alcuno una informazione adeguata, dettagliata e completa in merito alle sue condizioni cliniche, alle necessità di trattamento che esse comportavano e ai rischi cui andava in contro con il suo atteggiamento”.

“Con monitoraggio continuo avrebbe potuto salvarsi”

Un “monitoraggio in continuo di Stefano Cucchi avrebbe potuto consentire, all’insorgere della crisi cardiaca, un intervento rianimatorio che avrebbe anche potuto consentirgli di superarla. Occorre considerare – scrivono i giudici – che il Cucchi versava già da tempo nelle condizioni di grave denutrizione e disidratazione che conosciamo e tuttavia manteneva un equilibrio che gli consentiva di tollerarla”

“Certamente vi erano stati fattori scatenanti che si erano aggiunti a quelli preesistenti: la somministrazione di farmaci antidolorifici dagli effetti bradicardizzanti, il dolore intenso provocato dalle fratture in atto, fors’anche una più acuta crisi ipoglicemica, ma a fronte di tutto questo, ove fosse stata formulata una corretta diagnosi di base, si sarebbero dovuti approntare a maggior ragione interventi prudenziali e cautelativi per esser pronti a indurre quell’inversione di tendenza dei fenomeni clinici che avrebbero salvato la vita al paziente. Questo non è stato – sottolineano i giudici – e quindi, al di là del momento della irreversibilità dei fenomeni, sicuramente sussiste una condotta colposa, causalmente efficiente, che ha provocato il decesso di Cucchi“.

“Sottovalutati ipoglicemia e bradicardia”

“Un dato storico incontrovertibile è rappresentato dalla crisi cardiocircolatoria che ha condotto a morte Stefano Cucchi, una verità banale se vogliamo ma di una consistenza rocciosa” ma i medici del Pertini non valutarono in modo adeguato altri due fattori emersi dalla nuova perizia d’ufficio: “l’ipoglicemia e la bradicardia” due “fattori d’allarme che avrebbero imposto cautela”.

Per i magistrati i medici “avrebbero potuto svolgere una efficace azione causale impeditiva dell’evento morte: il ripristino di una corretta assunzione di cibi e bevande, determinando in tal modo la regressione dei meccanismi patologici instauratisi (in quanto l’ipoglicemia e la bradicardia sono reversibili al ripristinare di una corretta alimentazione), e un monitoraggio seriato della funzione cardiaca onde potere intervenire tempestivamente per correggere le alterazioni del ritmo al loro manifestarsi”.