Dalla manager di Pantani un libro su crucialità delle relazioni umane, anche ai tempi del Covid 

Dalla manager di Pantani un libro su crucialità delle relazioni umane, anche ai tempi del Covid

Pubblicato il: 29/10/2020 16:06

Con il coronavirus è cambiato tutto, ma la relazione è ancora più importante”. Parola di Manuela Ronchi, imprenditrice e manager che sa bene cosa siano i rapporti umani. Da Gerry Scotti a Pantani, passando per Max Biaggi e Piermario Motta ha dietro le spalle un lungo percorso tutto incentrato sulle pubbliche relazioni che l’ha portata a creare nel 1995 l’Action Agency, una cucina creativa di nuovi linguaggi e comunicazione. Ambiti che le sono particolarmente congeniali data la sua formazione e la laurea in Lingue e Letterature Straniere Moderne. Basi per lei da cui partire, come ha fatto, per curare le relazioni con gli altri e renderle tanto centrali per la sua vita lavorativa e personale da farle scrivere, in piena pandemia, il libro ‘Le relazioni non sono pericolose. L’importanza dell’incontro all’epoca dei social’, edito da Gribaudo. Un testo, scritto a quattro mani con la giornalista Simona Recanatini, con la prefazione dell’amico Federico Buffa, noto giornalista e telecronista sportivo italiano.

“Il periodo di quarantena ci ha fatto capire che il digitale ci permette di restare connessi – scrive la ceo di Action Agency – ma tra lo stare connessi e comunicare c’è una grande differenza. La tecnologia è un mezzo che ci deve aiutare a risolvere un problema quando c’è, ma non deve sostituirsi alla relazione umana”, suggerisce. “Oggi più che mai vivrà e resisterà chi ha davvero dei contenuti. Il mondo che ci siamo creati prima del coronavirus, dove sembrava che fosse figo chi ha più soldi o più follower, è crollato. Oggi devono contare di più la qualità e il contenuto, non il contenitore. Quegli eventi mirabolanti che cercano di coprire la mancanza di contenuto con gli orpelli e i fuochi d’artificio non si faranno più, a favore di quelli dove c’è davvero qualcosa da dire e da comunicare”.

“Fino a ieri – osserva l’autrice – abbiamo ‘mascherato’ con degli stratagemmi chi non aveva nulla da dire. Chi pensava che bastasse l’esteriorità per avere un ruolo, anche se non si aveva niente da dire, si era illuso. Leggere, documentarsi, avere dei contenuti, avere un’autenticità: questo fa la differenza. Oggi più che mai. L’uomo per cambiare – è il suo pensiero – ha bisogno di prendere paura. Non siamo noi che dobbiamo salvare la Terra, siamo noi che dobbiamo salvarci dalla Terra! Questo coronavirus – spiega quindi la manager – potrebbe essere visto come la reazione del pianeta che si è davvero stufato dei suoi abitanti che non l’hanno saputo rispettare”.

Manuela Ronchi, sebbene viva da anni nel mondo dello showbiz, crede e coltiva l’autenticità e l’umanità nei rapporti: “Se mi volto indietro devo dire che ho avuto il privilegio di conoscere persone straordinarie. Dal mio punto di vista, però, il vero privilegio consiste nell’arricchimento personale che questi incontri mi hanno lasciato e non il poter dire ‘ho lavorato con Gerry Scotti e sono stata la manager di Marco Pantani’. Doveroso aggiungere che non tutti i miei incontri professionali sono stati positivi: anzi, alcuni si sono poi rivelati densi di sfaccettature false o negative. Ma questa è la vita”, dice. “Non posso non mettere in evidenza – rivela – che quello con Marco Pantani è stato l’incontro che ha sconvolto in tutti i sensi la mia vita. Sono passati più o meno vent’anni da quando mi chiamò per diventare la sua manager e da quando ha voluto che, in un mondo decisamente maschilista come è quello del ciclismo, fosse una donna a gestire lui stesso e poi addirittura una squadra di corridori. Decisamente avanti, vero?”.

Fra ricordi, aneddoti, consigli e strategie, ‘Le relazioni non sono pericolose’ è a metà strada fra il racconto di una carriera e un manuale pensato per chi vuole ‘fare pubbliche relazioni’, lavorare nel mondo della comunicazione o semplicemente capirlo meglio. Ma il capitolo dedicato a Marco Pantani, come non manca di sottolineare l’autrice, è davvero un ‘pezzo a parte’. È quello che le ha cambiato la vita e il suo modo di intendere le relazioni, insegnandole (e insegnandoci) che le relazioni vincono su tutto. La fortuna che ha avuto l’autrice nel conoscere “quel” Pantani ed essere la sua guida le ha fatto scoprire il segreto del perché il Pirata è e resterà immortale. Gli aneddoti che racconta, alcuni per la prima volta, servono per far sapere a tutti i tesori preziosi che questa relazione le ha lasciato: il coraggio e la coerenza.

Dopo i fatti di Madonna di Campiglio la stampa non era a favore di Marco, ma l’autrice è convinta che rifarebbe esattamente tutto quello che ha fatto e gestirebbe altri cento, mille Pantani nonostante tutto quello che le è successo e nonostante l’intensità di quel rapporto e di quella situazione. Il perché è semplice da spiegare, secondo lei: “Avere il coraggio di fare delle scelte e soprattutto essere coerenti e non tradire, come ha sempre fatto lui, a costo di rimetterci la vita, denota secondo me che la fiducia è davvero al centro di ogni relazione umana”.

(di Veronica Marino)

Libri, ‘Il nemico mi ha reso libero’ di Bartolucci pronto per la ristampa 

Pubblicato il: 29/10/2020 14:22

Dopo una prima tiratura di 5.000 copie ‘Il nemico mi ha reso libero’ di Andrea Bartolucci è già pronto per la ristampa. Edito da Falco Editore, il romanzo di Bartolucci parla di carriera, soldi e successo ed è ambientato in Irlanda. il protagonista, Henry O’Neill, è un giovane che guarda al mondo della finanza come a un modello a cui aspirare. Si troverà a confrontarsi con uno “squalo” che lo incaricherà di occuparsi, insieme con altri collaboratori, di una fusione aziendale. Presto O’Neill scoprirà quale truffa si nasconde dietro questa operazione e quali distorsioni albergano tra le quinte di questo mondo. Riesce tuttavia, attraverso una scelta esistenziale sorprendente, a capovolgere il proprio vissuto e i propri modelli di riferimento.

Bartolucci, di Città di Castello in provincia di Perugia, classe 1972, con ‘Il nemico mi ha reso libero’ è al suo esordio letterario. Dirigente di azienda nel settore della Grande Distribuzione Specializzata – il suo lavoro lo ha portato a vivere in molte città italiane e a rapportarsi con i più grandi imprenditori del settore – Bartolucci dà vita a un romanzo che è un viaggio introspettivo, condensato di mistero e adrenalina, privo di ogni riferimento politico, colmo, anzi, di ricadute sociali e di valori morali.

Ventotene: al via i primi lavori nel Carcere di Santo Stefano 

Ventotene, al via i primi lavori nel Carcere di Santo Stefano

Pubblicato il: 27/10/2020 17:11

Entro ottobre partiranno i primi lavori di messa in sicurezza del Carcere di Santo Stefano, ex carcere borbonico ad un miglio dall’Isola di Ventotene, isola simbolo dell’unità europea. E’ questo uno dei punti significativi emersi dalla riunione del Tavolo Istituzionale Permanente convocata dalla Commissaria Silvia Costa. Con un arco temporale di 90 giorni per l’esecuzione, condizioni meteo permettendo, si procederà, quindi, alla realizzazione dei lavori di “somma urgenza” nella parte interna dell’edificio carcerario, sulle torrette e sugli archi delle celle, porzioni del bene monumentale maggiormente deteriorate e a rischio crollo, come sottolineato nella relazione tecnica di Invitalia, soggetto attuatore del progetto di recupero e valorizzazione del carcere.

Contestualmente verrà messo in sicurezza l’approdo della Marinella per garantire accesso sicuro agli operai, al personale incaricato e alle operazioni di scarico dei materiali necessari per gli interventi. “Trecentomila euro – si legge in una nota – è il tetto di spesa consentita per questi primi ed urgenti lavori, in conformità a quanto previsto dall’art. 148, comma 7 del Codice dei Contratti pubblici. Interventi che verranno eseguiti nel rispetto del Cronoprogramma e che sono riconducibili e funzionali agli obiettivi del Contratto Istituzionale di Sviluppo (Cis) e costituiscono un’anticipazione dei lavori di messa in sicurezza, previsti nell’ambito dell’Accordo Operativo, sottoscritto il 3 giugno scorso tra il Mibact ed Invitalia. La somma stanziata rientra perciò nel finanziamento del Cis, previsto per il recupero e la rifunzionalizzazione dell’ex Carcere borbonico dell’isola di S. Stefano-Ventotene, sottoscritto il 3 agosto del 2017 in base alla delibera Cipe del 2016”.

“Un grande lavoro di squadra – dichiara Silvia Costa – ha caratterizzato questi mesi nei quali con il supporto del Giampiero Marchesi (Responsabile Unico del Contratto), la collaborazione del team di Invitalia e della Soprintendenza archeologica Belle Arti e Paesaggio per le province di Frosinone, Latina e Rieti ed il Comune di Ventotene, sono stati effettuati sopralluoghi, rilievi ed indagini propedeutici per i futuri interventi di messa in sicurezza degli edifici e degli approdi, della Marinella e dello Scalo 4, sull’isola di S.Stefano”.

“In modo innovativo abbiamo portato avanti un processo che ha visto partecipi e protagoniste le otto amministrazioni firmatarie del Cis e che – sottolinea la commissaria – ha concretamente coinvolto la comunità di Ventotene nei Workshop del 16 settembre scorso per la candidatura del Comune al Label europeo e del 17 settembre successivo, per l’ascolto e la condivisione di idee progettuali per la nuova vocazione dell’isola di Santo Stefano in un progetto integrato con Ventotene che ne è Comune, partecipato anche con lo spirito della Convenzione di Faro, di recente ratificata dal nostro Paese, nel coinvolgimento ampio dei residenti, delle associazioni culturali, delle Istituzioni, dei possibili partner ed europeo ed euromediterraneo nell’offerta e nella fruizione delle varie attività di Alta formazione, di Didattica specializzata, di Ricerca, di Residenzialità. Da oggi sull’isola di S. Stefano abbandonata da cinquanta anni, si vedranno i primi segnali dei lavori, dell’attenzione riservata al Carcere, alle sue pertinenze, nel rispetto della sua storia di dolore e di conservazione dell’autenticità dei luoghi stessi”.

Libri nelle carceri, Sognalib(e)ro premia i detenuti lettori 

Libri nelle carceri, Sognalib(e)ro premia i detenuti lettori

Pubblicato il: 21/10/2020 13:42

Portare la lettura e la scrittura nelle carceri italiane è una missione”. È lo spirito che adotta Bruno Ventavoli, presidente del premio Sognalib(e)ro, per introdurre la terza edizione della rassegna che mette al centro il tema ‘Il mio lato positivo’. Sognalib(e)ro è la rassegna che ha come obiettivo la valorizzazione della scrittura e della lettura negli istituti penitenziari e di reclusione, usando entrambe come strumento di riabilitazione. Sarà dunque il terzo anno per la kermesse promossa dal Comune di Modena, assessorato alla Cultura, in collaborazione col ministero della Giustizia, Dipartimento amministrazione penitenziaria e con il sostegno di Bper Banca.

Si tratta di un’iniziativa che mette in pratica l’articolo 27 della Costituzione, quello che assegna al carcere una funzione rieducativa del condannato. Il progetto consiste in un concorso letterario che prevede l’assegnazione di due premi, uno a un’opera letteraria valutata e votata dai detenuti, l’altro a un elaborato prodotto dai detenuti stessi, che potrà essere pubblicato, da solo o in antologia con altri, in ebook dal Dondolo, la casa civica editrice digitale del Comune di Modena.

Il concorso si articola in due sezioni, quella della narrativa italiana e quella per gli inediti. Nella prima una giuria popolare, composta dagli aderenti ai gruppi di lettura delle carceri, assegnerò il premio a uno di questi tre romanzi: ‘Almarina’, di Valeria Parrella (Einaudi, 2019); ‘La misura del tempo’ di Gianrico Carofiglio (Einaudi, 2019); ‘Lo splendore del niente e altre storie’ di Maria Attanasio (Sellerio, 2020). Nella seconda, invece, una giuria composta da Ventavoli e dagli scrittori Barbara Baraldi, Simona Sparaco e Paolo di Paolo assegnerà il premio a un’opera inedita prodotta da detenuti o detenute sul tema ‘Il mio lato positivo’.

Andrea Bortolamasi, assessore alla Cultura di Modena, sottolinea il “profondo valore che ha questo premio, a maggior ragione dopo il lockdown di marzo scorso e dopo le rivolte nelle carceri. È una ferità ancora aperta che si può curare con una medicina che può essere la cultura”. Discorso condiviso anche da Marco Bonfiglioli, dirigente provveditorato amministrazione penitenziaria Emilia-Romagna: “Per noi questo premio è importante per ricordare che, nonostante il Covid, non ci siamo mai fermati. Il carcere è ancora un luogo fondamentale nella società, sia per un ruolo di riqualificazione che per rieducazione”. Anche per Marta Martone, direttrice della casa di reclusione Sant’Anna di Modena, “il carcere, in primis, deve essere luogo di cultura, strumento di crescita e di formazione individuale”.

Dello stesso avviso Eugenio Garavini, vice direttore generale Bper Banca: “Bper banca ci ha creduto dall’inizio in questo progetto e continua a crederci. Ci hanno definito ‘La banca che sa leggere’, cosa che a noi inorgoglisce molto. Portare avanti questo discorso di lettura e scrittura collegato al reinserimento dei detenuti è fondamentale, soprattutto in rapporto alla Costituzione. Lo facciamo per responsabilità sociale, non per marketing. Credo che portare avanti questa iniziativa con tutte le problematiche che ci sono in questo periodo sia un grande atto di fiducia. Anche nelle difficoltà non bisogna mai abbassare la guardia”.

Per la nuova edizione del premio il ministero di Grazie a Giustizia ha individuato 17 istituti con laboratori di lettura o di scrittura creativi: la Casa circondariale di Torino Lorusso e Cotugno, quella di Modena, la Casa di reclusione di Milano Opera, quelle di Pisa, Brindisi, Trapani, Verona, Cosenza, Saluzzo, Pescara, Napoli Poggioreale, Sassari, Paola, Ravenna, e Castelfranco Emilia; e quelle femminili di Roma Rebibbia e Pozzuoli.

Libri, esce “Everest” di Stefano Ardito 

Libri, esce Everest di Stefano Ardito

Stefano Ardito con il suo nuovo libro “Everest” (Foto Adnkronos)

Pubblicato il: 21/10/2020 14:40

(di Andreana d’Aquino)

“C’è l’Evererest e poi c’è tutto il resto”. Si potrebbe partire da qui, spinti da vecchio un mantra “dell’alpinismo inglese” per iniziare a leggere “Everest” (Editori Glf Laterza), il nuovo libro dello storico scrittore di montagna Stefano Ardito. Dedicato a Big E, il volume da domani nelle librerie è il racconto di un secolo – a maggio 2021 saranno 100 anni di storia – fra ascese, esplorazioni, tentativi e misteri accaduti sul Tetto del mondo. “Un secolo fa, nella primavera del 1921, una spedizione britannica lascia le piantagioni di tè di Darjeeling per dirigersi verso la base della montagna” più alta della Terra, racconta lo scrittore. “Questo libro nasce dalla mia passione per l’Everest” scandisce senza mezzi termini Stefano Ardito conversando con l’Adnkronos dei cimenti raccontati nel libro dei migliori alpinisti del mondo da “Eric Shipton a Reinhold Messsner a Edmund Hillary”. In tanti, mette in evidenza l’autore, “fra scienziati, topografi, sognatori e figure eccezionali come quelle degli sherpa” si sono inoltrati sui pendii e nelle valli di questo gigante di 8.848 metri, tra le Sette Vette del Pianeta e incassonato nella catena dell’Himalayana, al confine fra Cina e Nepal. “Sono stato varie volte a entrambi i campi base, scrivo di montagna, di alpinismo e – ammette lo scrittore – sono molto legato, per una serie di mie vicende, al mondo dell’alpinismo inglese dove l’Everest è comunque “la” presenza fondamentale”. “Lo è per tutti ma lo è in particolare per i britannici anche perché gli inglesi ragionano con misure ‘in piedi’ non in metri” e “per loro c’è prima l’Everest e poi tutto il resto il resto” è il riferimento anche alla disputa sull’altezza dell’Everest rilanciata da Stefano, classe 1954, noto per i suoi film sulle montagne, specializzato in natura, storia e viaggi.

Al suo attivo articoli di montagna per le maggiori testate italiane – dal Messaggero a Repubblica da Meridiani a Plein Air – Stefano Ardito, giornalista, negli anni ’80 intervista John Hunt, capo della famosa spedizione britannica sull’Everest nel 1953, ed Edmund Hillary, “uno dei primi due ad arrivare sulla vetta”. “Erano tutti e due stupiti dall’effetto che la conquista dell’Everest aveva avuto in tutto il mondo” tanto che a Londra “erano stati accolti da un milione di persone, nello scalo a Roma c’erano centinaia di migliaia di loro fan, ma, nota di rilievo, al Cairo c’erano 600mila persone” osserva il ‘narratore’ delle montagne. Hunt e Hillary, continua ancora Stefano Ardito, “mi dissero che proprio grazie all’interesse dimostrato da così tante persone avevano ‘capito di avere fatto una cosa bella e grande’” anche “per tutte le persone che in quegli anni – appena dopo la Seconda Guerra Mondiale – avevano bisogno di una notizia bella e di pace”. “Ecco, queste frasi mi continuano a girare per la testa, mi fanno pensare che raccontare storie di questo tipo abbia un valore anche per chi non si interessa di montagna” osserva lo scrittore.

Il racconto dell’Everest scritto da Stefano Ardito inizia con “una foto scattata il 29 maggio del 1953” che “ha fatto il giro del mondo in poche ore ed è rimasta il simbolo di montagna e di avventura fino ad oggi”. Quella foto, ricorda, “mostra un uomo in piedi su una vetta di neve, mentre alza il cielo in segno di vittoria una picozza alla quale sono legate le bandiere della Gran Bretagna, del Nepal, dell’India e delle Nazioni Unite”. “L’uomo si chiama Tenzing Norgay, è uno sherpa nato nella regione del Khumbu, vive da anni a Darjeeling, in India. A scattare la foto è il suo compagno di cordata, il neozelandese Edmund Hillary”. E “quel giorno Hillary e Tenzing cambiano la storia dell’andare per montagne. Dopo il Polo Nord e il Polo Sud, toccati rispettivamente nel 1908 e nel 1912, anche il ‘terzo Polo’ della Terra è stato raggiunto dall’uomo” racconta ancora Stefano Ardito portandoci, pagina dopo pagina, sull’Everest attraverso le sue valli, la sua storia anche drammatica, i suoi cammini impervi: in mezzo alla potenza di una natura che nelle pieghe di Big E sovrasta ogni pretesa dell’umanità.

Tornabuoni Art espone a Parigi il Minimalismo italiano 

Tornabuoni Art espone a Parigi il Minimalismo italiano

Pubblicato il: 21/10/2020 14:24

Tornabuoni Art inaugura i nuovi spazi di avenue Matignon a Parigi con ‘Italia minimal’, un omaggio agli artisti italiani che nel dopoguerra hanno lavorato sulle infinite possibilità di un nuovo inizio facendo tabula rasa di colore, disegno, bidimensionalità e dell’annosa divisione fra pittura e scultura. Dal 22 ottobre fino al 22 dicembre saranno esposti dei veri e propri capolavori realizzati da indiscussi protagonisti della sperimentazione visuale tra la fine anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, alcune opere in mostra sono di più recente realizzazione, ma si legano in quel periodo per la loro provenienza teorica.

Tra i protagonisti Vincenzo Agnetti, Agostino Bonalumi, Alberto Burri, Enrico Castellani, Mario Ceroli, Gianni Colombo, Dadamaino, Lucio Fontana, Jannis Kounellis, Sergio Lombardo, Piero Manzoni, Paolo Scheggi, Giuseppe Uncini. “L’arte ‘minimal’ nasce in Italia proprio come risposta al caos del contesto sociale e politico di questi anni e si materializza in forme rigorose ed essenziali, in un ritorno al grado zero dell’arte – si legge in una nota della mostra – I materiali richiamano la rinascita industriale e culturale che caratterizza in quegli anni la penisola italiana e Milano in particolare”.

“Questa tendenza ‘alla riduzione minimale’ del contenuto artistico ha rappresentato la convergenza di tutte le possibilità di linguaggio – si legge ancora – capaci di riunire arcaismo e modernità, materiali e tecniche tipiche della complessità e della diversità di un’eredità culturale mediterranea ed italiana. Un desiderio di rinascita – si legge ancora – che coincide con il rifiuto di un’arte tradizionale, del modo di fare ed esporre le opere, ma anche con la necessità di rimettere in discussione la fruizione dell’arte da parte dello spettatore. Gli artisti invitano ad entrare in rapporto diretto con l’opera – conclude la nota – non più unicamente osservata, ma vissuta attraverso un’attiva partecipazione fisica”.

Libri: il giornalista Forte vince il Premio Caravella con il suo ‘Ordine Nuovo parla’ 

Il Premio Caravella a Forte per il suo 'Ordine nuovo parla'

Pubblicato il: 20/10/2020 13:04

Il giornalista Sandro Forte vince il Premio Caravella Tricolore 2020 con il suo libro “Ordine Nuovo Parla” di Mursia Edizioni. Il premio, come ogni anno, è destinato a coloro i quali si siano distinti per la qualità del loro apporto alla società e per la saldezza nei principi che da sempre informano questa manifestazione. La consegna del premio non si è celebrata per via del nuovo Dpcm che vieta cerimonie e congressi.

“Sono naturalmente orgoglioso di questo riconoscimento. Credo sia stato un importante contributo alla verità su quello che realmente è stato Ordine Nuovo, ovvero il maggior laboratorio politico della destra radicale dal Dopoguerra – spiega all’Adnkronos Sandro Forte – Al di là delle ricostruzioni distorte che hanno attribuito al movimento di essere l’artefice della strage di Piazza Fontana. Cosa assolutamente falsa, visto che nessuno degli imputati di quella strage è mai appartenuto ad Ordine Nuovo. Nel libro, a tal proposito, c’è un capitolo dedicato alla Strage di Piazza Fontana, su dichiarazioni dell’allora ministro degli Interni Taviani che nessuno ha mai approfondito e voluto prendere in considerazione”.

“Nulla a che fare con la Cia e i servizi segreti – aggiunge l’autore – Ordine Nuovo è stato messo fuorilegge proprio perché ha combattuto esclusivamente sul piano delle idee il sistema democratico (il solo episodio di violenza fu una sassaiola davanti alla sede della Dc a Roma). Ma proprio per questo è stato ritenuto pericoloso. E solo dal suo scioglimento – con un ‘atto politico’ di Taviani – nacquero quelle schegge impazzite che si resero responsabili di attentati e omicidi, come quello del giudice Occorsio, e che, contrapponendosi alle violenze dell’estrema sinistra, sia extraparlamentare che terroristica, favorirono la teoria degli ‘opposti estremismi’, tanto cara ai governi democristiani dell’epoca”, conclude.

Covid, morta Lea Vergine un giorno dopo il marito Enzo Mari 

Covid, morta Lea Vergine un giorno dopo il marito Enzo Mari

Foto Fotogramma

Pubblicato il: 20/10/2020 12:50

Dopo il grande designer Enzo Mari è morta anche la moglie, curatrice e critica d’arte Lea Vergine. I coniugi se ne sono andati a un giorno di distanza l’uno dall’altro. Entrambi erano ricoverati all’ospedale San Raffaele di Milano per le complicazioni da coronavirus. Mari si è spento all’età di 88 anni nella mattina di lunedì 19 ottobre, mentre la moglie all’età di 82 anni è deceduta oggi.

Lea Vergine, all’anagrafe Lea Buoncristiano, era nata a Napoli il 5 marzo 1936. Si era trasferita a Milano e dopo anni di convivenza aveva sposato il designer Enzo Mari: dalla loro unione è nata la figlia Meta.

Studiosa dei nuovi linguaggi visivi, nel saggio “Il corpo come linguaggio” (Prearo Editore, 1974) Lea Vergine ha analizzato la nascita e l’evoluzione della Body Art, imponendosi come una delle principali studiose delle avanguardie delle azioni performative. Ha posto in rilievo (in “L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche”, Mazzotta, 1980) la funzione delle donne nei fenomeni artistici della prima metà del XX secolo, apportando un contributo fondamentale sia nell’approccio critico sia nella rivalutazione dell’opera artistica femminile.

Scrittori: tesi di laurea di Gesualdo Bufalino ritrovata in Archivio Università Palermo 

Ritrovata a Palermo la tesi di laurea di Gesualdo Bufalino

Pubblicato il: 19/10/2020 14:12

Un fascicolo dattiloscritto di di 90 pagine che reca sul frontespizio il titolo ‘Gli studi di archeologia e la formazione del gusto neoclassico in Europa (1738 – 1829)‘ e l’indicazione dell’anno accademico 1945-1946. E’ la copia della tesi di laurea di Gesualdo Bufalino destinata alla segreteria, ritrovata durante i lavori di trasferimento del materiale custodito nell’Archivio Storico di Ateneo dell’Università di Palermo nei nuovi locali del convento secentesco di Sant’Antonino. In realtà lo scrittore comisano, del quale ricorrono i cento anni dalla nascita, si sarebbe laureato a Palermo nel marzo del 1947, dopo avere ripreso gli studi intrapresi a Catania e interrotti bruscamente per la chiamata alle armi, sotto la guida del noto antifascista toscano Silvio Ferri (1890-1978), che dal 1° dicembre del 1940 insegnava archeologia nell’Ateneo palermitano.

“Nel titolo del dattiloscritto sono già riconoscibili i segni della più autentica cifra letteraria dell’autore di ‘Diceria dell’untore’, pubblicato nel 1981 ma pensato negli anni e negli ambienti in cui Bufalino era impegnato nella stesura della propria tesi di laurea – commenta il professor Mario Varvaro, delegato del Rettore all’Archivio Storico di Ateneo – La tesi si annuncia come l’incunabolo del gusto per la rievocazione e il recupero di ciò che è stato, proprio di uno scrittore educato e cresciuto al culto della memoria intesa come ‘spontaneo sortilegio di ombre cinesi, teca di magiche epifanie, cinematografo di larve dissepolte dalla sabbia del tempo’. In questo, l’archeologo e lo scrittore sono simili: entrambi restituiscono luce all’ombra, rinominano i segni muti del passato e lo fanno rivivere nel sortilegio della teogonia dell’essere”.

Lo studio di questo unico esemplare finora noto della tesi di laurea di Bufalino – continua Varvaro – potrà gettare luce dunque sulla scaturigine più antica dell’autentica cifra della sua scrittura, che si rispecchia nella centralità del tema della memoria come racconto del ricordo e della parola come Riessere, come miracolo del Bis, come analgesico contro la tentazione del nulla”. Varvaro sottolinea la singolarità della coincidenza del ritrovamento della tesi con il centenario dello scrittore di Comiso. E osserva che “questa è senza dubbio un’occasione feconda per la comunità scientifica di studiosi e di lettori dell’opera di Bufalino, per riscoprire l’europeismo e l’originalità di uno scrittore d’eccezione che ha fatto della biblioteca e del dialogo con le voci dei libri la metafora più eloquente della propria attività letteraria”.

Rome Art Week, ‘Fino ai confini del mondo’ alla Galleria Restelliartco  

Rome Art Week, 'Fino ai confini del mondo' alla Galleria Restelliartco

Pubblicato il: 17/10/2020 14:23

E’ strutturata in quattro diversi ed originali percorsi visivi, che saranno fruibili anche online, la mostra ideata da Raffaella Rossi e Filippo Restelli della Galleria Restelliartco, in via Vittoria Colonna 9, per la Rome Art Week 2020. Un’esposizione che attraversa il Pianeta, spalanca le braccia per unire virtualmente differenti popoli e tradizioni, o improvvisamente si chiude per raccontare e urlare il fallimento.

Nel primo percorso espositivo, gli artisti Irem Incedayi, Gabriele Donnini, Fabio Ferrone Viola, “Stasi” riuniti nel collettivo “Working Heads”, partono da un teschio in quanto essenza e dimora dell’anima e dell’essere umano, privo di sovrastrutture e influenze esterne, per esprimere il proprio personale concetto di mondo e di limite. Il teschio di Irem Incedayi, raffinata artista di origini turche, realizzato in gesso, dipinto ad acrilico, olio, pigmento di bronzo, ha sulla bocca una farfalla in bronzo realizzata con la tecnica della fusione a cera persa, che sembra essere in punto di spiccare il volo. Una scultura che è un appello alla pace, affinché nel silenzio, si possano udire le parole dei più deboli ed i sussurri di chi non ha più voce.

In “Ego te absolvo” di Gabriele Donnini, il mondo diventa piccolo quanto i confini della cella di un carcere; il teschio fulcro dell’opera è rinchiuso all’interno delle sbarre ed ha incise sulla sua superficie le parole, i disegni o i simboli che i detenuti hanno tracciato negli anni sulle pareti . Il carcere come un microcosmo quindi, un ‘fuori mondo’, che è li, esiste e si racconta.

Fabio Ferrone Viola nel suo “Golden Age” racconta un mondo in cui i limiti sono i difetti che penalizzano l’uomo e lo spingono a cercare scorciatoie, o rotte già battute. Un’opera, quella dell’artista romano, che attraverso il recupero e l’utilizzo di materiali di scarto, come gli innumerevoli bottoni che ricoprono l’opera, sottolinea l’importanza del recycling e di come l’arte possa rendersi interprete di progetti di sostenibilità ambientale.

In Justice – Tribute to George Floyd, “Stasi”, fornisce la sua personale rappresentazione di un Pianeta nel quale l’uomo è segregato all’interno di un muro; un mondo in cui è il Teschio a dominare, allegoria della morte ma anche della vita, e su di esso una corona di spine, simbolo del martirio e del sacrificio estremo dell’uomo, come nel caso di George Floyd.

Nel secondo percorso espositivo, i confini del mondo per Umberto Stefanelli sono quelli di una stanza di un love hotel di Minami ad Osaka , all’interno del quale nasce il progetto fotografico “Photogeisha”, venti immagini per raccontare l’antichissima arte dello shibari. Una esposizione narrativa per immagini nata per caso nel corso di una notte.

Nel terzo percorso visuale, il mondo si apre su terre sconfinate in cui gli animali sono i protagonisti del progetto fotografico “Loners” di Marco Simoni. Una natura sconfinata e selvaggia su cui troppo spesso l’uomo vuole dominare. Nel quarto percorso espositivo, i galleristi Raffaella Rossi e Filippo Restelli presentano una selezione di opere di Maestri storici della Pop Art, della fotografia e del design: una vera e propria esplorazione a 360° nel contemporaneo.

Si inizia con “Skull 157” di Andy Warhol, serigrafia del 1976 in cui l’artista toglie al teschio rappresentato ogni connotazione negativa, un’arte volutamente privata del suo contenuto drammatico per diventare “Il ludo”, il gioco. E così anche per il volto di Mao, serigrafia a colori del 1972, esente da ogni giudizio di carattere politico; il personaggio è volutamente detronizzato, disinnescato dall’uso di scelte cromatiche forti ed estreme. Si prosegue con una serigrafia di Robert Indiana, le top model Naomi Campbell e Kate Moss dello street artist K-Guy, la Be the Change, serigrafia di Obama del 2009 di Obey Giant/Shepard Fairey.

Per il design, invece, ci sono le iconiche poltroncine Jolly Roger Calavera di Gufram, e per la fotografia gli scatti di Robert Mapplethorpe: il Self Portrait, Richard Gere e Valerie Kaprisky, Grace Jones e Tarantula; la Marilyn Monroe Crucifix III The last sitting, datata 1962 di Bert Stern, la splendida “Ofelia” di Matteo Basilè, la Lamba print The Way di Vittorio Storaro, e la “Faster Faster – I am almost there” del dissacrante David LaChapelle, che ritrae una statuaria Pamela Anderson con indosso solo un paio di stivali che sfreccia inseguita dai fotografi a cavallo di una moto: fino ai confini del limite appunto, e oltre. La Rome Art Week è in scena nella Capitale dal 26 al 31 ottobre.