Immagine d’archivio (Fotogramma)
Pubblicato il: 17/12/2018 18:56
“Non si dovrebbe sollevare il problema quando Denis Cavatassi viene dichiarato innocente. Se ne parla in quel momento e poi mai più. Bisogna tenere alta l’attenzione sui circa 3mila casi di italiani detenuti all’estero. E’ un problema sociale e la politica dovrebbe occuparsene, rivedendo gli accordi con i vari Paesi e creando una figura istituzionale, che conosca le leggi del posto e si faccia carico dei loro diritti”. Katia Anedda è la presidente della Onlus ‘Prigionieri del silenzio’, nata 10 anni fa per dare voce alle migliaia di nostri connazionali che finiscono, anche da innocenti, nelle carceri di tutto il mondo, spesso in condizioni disumane, senza contatti con le famiglie né con gli avvocati, senza parlare la lingua del posto in cui si trovano.
In base agli ultimi dati ufficiali della Farnesina sono 2924, un numero censito a dicembre del 2017, in calo rispetto ai 3278 dell’anno precedente. Tra questi la gran parte, 2.314, sono nei Paesi dell’Unione europea, 291 nelle Americhe, 182 nei Paesi europei extra Ue, 44 nei Paesi del Mediterraneo e in Medio Oriente, 16 nell’Africa sub-sahariana, e 77 tra Asia e Oceania.
“Molti non parlano per paura o per vergogna – spiega all’Adnkronos – Quelli arrestati perché qualcosa hanno fatto, magari reati non importanti per i quali comunque rischiano l’ergastolo, vivono in situazioni atroci, per loro e per le famiglie che spesso stanno dall’altra parte del mondo: hanno il problema della lingua, non sanno chi contattare, il consolato non risponde, la Farnesina non entra nel merito, noi cerchiamo di metterli in contatto con le persone giuste, che possano aiutarli”. La storia di Cavatassi, ricorda Anedda, “va avanti da 8 anni, è stato arrestato poi rilasciato, è rimasto in Thailandia forte della sua innocenza. Negli ultimi 3 anni ha vissuto le pene dell’inferno, rischiando la pena di morte. Ma molti sono i casi che non finiscono all’attenzione dei media: innocenti ce ne sono tanti, magari alcuni firmano un’ammissione di colpevolezza non conoscendo la lingua e vengono incastrati. Chi non ha possibilità economiche sconta la pena nonostante l’innocenza”.
Quest’ultimo caso di cronaca dovrebbe essere l’occasione per tornare a sollevare il problema, e per sollecitare la politica a intervenire. “Rivisitare tutti gli accordi, fare in modo che ci siano condizioni di trattamento più umane, che ci si possa difendere senza dovere spendere 10 volte di più rispetto all’Italia per garantirsi un giusto processo – ammonisce la presidente di ‘Prigionieri del silenzio’ – In India, ad esempio, due ragazzi hanno speso più di 300mila euro. Poi c’è il problema dei consolati che sono spesso deboli, anche per mancanza di risorse, e lontanissimi dal posto in cui l’italiano è detenuto. In Europa è tutto più facile, e lì si trova il maggior numero degli italiani detenuti all’estero, i diritti sono garantiti di più e per la famiglia si tratta di affrontare solo poche ore di volo”.
Ancora, “servirebbe un ente di collegamento, una figura istituzionale che conosca le leggi del posto e sia dalla parte del detenuto. Il magistrato di collegamento esiste solo in alcuni Paesi europei, bisognerebbe estenderlo. Poi anche la famiglia dovrebbe essere sostenuta e supportata psicologicamente. Non vale l’argomento che i numeri sono bassi perché intorno a ciascuno dei circa tremila detenuti ruotano almeno 10 persone, tra parenti e amici, e considerando i 5 milioni di italiani iscritti all’Aire e i 10 milioni in giro per il mondo, ci sono 15 milioni di potenziali detenuti. La politica – conclude Katia Anedda – dovrebbe occuparsene”.