Pubblicato il: 19/11/2019 18:41
(di Roberta Lanzara) – “E’ vero che l’opzione violenza attraversava già il movimento di contestazione dell’autunno caldo del ’69 ma è innegabile che di fronte a questo c’è chi, come Aldo Moro, ha lavorato per comporre un conflitto che si stava creando nel Paese mentre una ‘manina’ di matrice neo- fascista ha lavorato all’interno di pezzi deviati dello stato per far precipitare l’Italia nello scontro. La verità va detta per intero”. A parlare, commentando il post su Facebook di Matteo Salvini in ricordo della morte avvenuta il 19 novembre 1969 a Milano dell’agente di Polizia Antonio Annarumma, è Angelo Picariello, giornalista e quirinalista dell’Avvenire che ha dedicato ampio spazio all’uccisione del poliziotto, originario di Monteforte Irpino (in provincia di Avellino), nel libro recentemente pubblicato ‘Un’azalea in via Fani‘, che sarà presentato giovedì prossimo a Roma con l’intervento tra gli altri di due personaggi, “coinvolti in una storia di riconciliazione”: Agnese Moro, figlia dello statista ucciso dalle Br e Giovanni Ricci, figlio di Domenico Ricci, appuntato della scorta di Moro morto in via Fani.
“Faccio riferimento ad Annarumma nella parte iniziale del libro quando ricostruisco l’omicidio Calabresi: Milano aveva chiuso nel peggiore dei modi gli anni Sessanta aprendo la strada alla lunga scia di sangue del decennio successivo” con la strage di Piazza Fontana, ricorda l’autore del saggio ‘Un’azalea in via Fani’, così intitolato per la “piantina che Franco Bonisoli volle lasciare in segreto il primo maggio 2013 a 35 anni dall’attentato, proprio lì, dove lui uccise gli agenti della scorta di Moro”, racconta il giornalista dell’Avvenire riproponendo una rilettura degli anni di piombo da un punto di vista cattolico, attraverso un’azalea che assurge nel nuovo millennio a “simbolo della riconciliazione e del senso di sgomento che hanno queste persone per l’essersi coinvolte in una vicenda di cui avvertono la drammaticità per la deriva ideologica“, spiega.
La morte del ventiduenne agente del reparto Celere, Antonio Annarumma, “che alla guida di una jeep della polizia morì con il cranio fracassato dal tubo di un’impalcatura di un cantiere della zona brandito da manifestanti che avevano assaltato la camionetta”, è indicata dal giornalista come un evento tragico “che aveva arroventato i rapporti fra polizia e sinistra extraparlamentare”.
“Era una giornata di sciopero generale quel 19 novembre del 1969, contro il caro affitti – si legge – In due diversi cortei erano scesi in Piazza sindacati, anarchici, marxisti-leninisti e studenti, ma la manifestazione era finita nel peggiore dei modi, con gravi scontri culminati con quella morte assurda”.
“Nel clima di omertà che ne seguì, non si trovò nessuno disposto a collaborare, nonostante il tragico evento si fosse verificato davanti a decine, forse centinaia di testimoni”. Picariello rievoca “il tentativo del leader del movimento Mario Capanna di attribuire la morte all’impatto con un’altra camionetta della polizia (l’agente, colpito a morte, aveva perso il controllo del mezzo), mentre i periti stabiliranno alla fine che fu ucciso da un oggetto contundente usato come una vera e propria lancia“. ‘L’oggetto… l’ha colpito con violenza alla regione parietale destra, poco sopra l’occhio, procurandogli una vasta ferita con fuoruscita di materia cerebrale’, si legge nella perizia.
Il giornalista dell’Avvenire ricorda anche i funerali di Annarumma in cui era stato proprio il commissario di polizia Luigi Calabresi, assassinato il 17 maggio 1972 dinanzi alla sua abitazione per mano di un commando di due uomini, “a intervenire, ingaggiando un corpo a corpo drammatico, in questura, per sottrarre Capanna al linciaggio degli agenti, furiosi per la sua presenza alle esequie. Dal leader del movimento studentesco – rimarca Picariello – per quel tragico episodio, non è mai venuta però nessuna assunzione di responsabilità, neanche oggi, a decenni di distanza”.
La morte di Annarumma fu “l’inizio di una spirale di sangue che non si sarebbe più interrotta – scrive l’Autore – Meno di un mese dopo, Milano venne squarciata da un tremendo boato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, in Piazza Fontana, alle spalle del Duomo. Non c’è militante di sinistra passato alla lotta armata che non spieghi la sua scelta a partire da quell’evento.
Per tanti, in quel pomeriggio l’Italia perse la sua ‘innocenza“, si legge nel saggio storico, frutto di una lunga ricerca curata dall’Istituto di Studi Politici ‘S. Pio V’ di Roma e che si avvale di una prefazione dello storico della ‘Cattolica’ Agostino Giovagnoli, dei contributi dell’ex presidente della Camera, Luciano Violante e dell’ex capo dell’Antiterrorismo della Polizia, Carlo De Stefano.