Covid, parlano i medici militari del Celio: “La nostra guerra contro un nemico nascosto” 

Sono 230 i pazienti Covid ricoverati nel policlinico militare del Celio dal primo settembre scorso. Solo oggi 80 sono in reparto, 20 in terapia intensiva. Più di tre persone al giorno, uomini e donne di tutte le età, arrivano in media nel polo sanitario nel cuore di Roma su ambulanze militari e civili. “Questa è una guerra. Un ospedale da campo dove non arrivano feriti, dove non trattiamo vittime innocenti o soldati ustionati da granate o mine, ma mamme, ragazzi, nonni sorpresi da un nemico che non vediamo, subdolo, un virus che qui studiamo in un dipartimento scientifico già protagonista in campi come la difesa da eventi nucleari, biologici e chimici. Questa è una guerra sì, una guerra ma in tempo di pace”.

Siamo al policlinico militare Celio, riconvertito a marzo con un accordo interministeriale in centro anti Covid con 150 posti letto, dei quali 50 per terapie intensive e sub intensive. Le parole con le quali il maggiore Nadir Rachedi, medico anestesista rianimatore, ha sintetizzato all’Adnkronos il periodo nel quale si trova l’immensa struttura sanitaria nel cuore di Roma suonano allo stesso modo di quelle pronunciate da un suo collega che al Celio lavora da 17 anni e che fu tra i primi, a marzo scorso, ad andare in servizio ad Alzano Lombardo.

“Lì ho visto uno scenario al quale noi militari siamo abituati, seppur non in territorio nazionale – racconta – una scena di guerra con malati che raggiungevano gli ospedali accumulandosi e da gestire tutti insieme. Sono stato in missione all’estero 12 volte ma questo evento qui è del tutto anomalo. Non i feriti, ma i malati. Persone con le quali fino al giorno prima riesci a scambiare una battuta e che improvvisamente peggiorano e vengono intubati. Le ambulanze arrivano in continuazione e lo sforzo è assimilabile, soprattutto per la sanità militare, solo a quello del secondo conflitto mondiale”.

In pochi minuti, questa mattina, ben tre ambulanze, due delle quali militari, hanno varcato l’ingresso del policlinico con a bordo altrettanti pazienti Covid. C’è chi tossisce e riesce a trascinarsi sotto braccio a una dottoressa in reparto, chi in barella già si prepara ad affrontare i giorni più duri. Quelli della terapia intensiva, della pronazione, dei tubi per respirare e dei medici che indossano ampie tute gialle e comunicano tra loro via radio. Sono tutti monitorati attraverso uno schermo che riprende insieme le varie stanze e proietta un “film h24” trasmesso in una sorta di sala regia allestita alle porte della “real life” dove il personale sanitario vive, si cambia, disinfetta i dispositivi durante il proprio turno. Sono pazienti soli, quelli affetti dal Covid, che i familiari non possono vedere, abbracciare, coccolare. Per una di loro la figlia ha disegnato sul cuscino un ‘TVB’, unica concessione per chi viene sorpreso da una malattia alienante.

“Lavoriamo in partnership con lo Spallanzani, in collaborazione con i colleghi civili in overbooking (il policlinico militare di Roma è stato riconosciuto dalla Regione Lazio quale ospedale ‘spoke’ dell’istituto di infettivologia proprio in risposta all’emergenza Coronavirus, ndr) – spiega il capitano medico Valentina Di Nitto – La mission è molto impegnativa, il Policlinico Militare è oggi uno dei supporti alla sanità nazionale voluti dal Ministro della Difesa Lorenzo Guerini e che coinvolge tutte le forze armate. Grande l’impegno da marzo e aprile, ma oggi non abbassiamo le armi. Il nemico è nascosto e non arretra”. (di Silvia Mancinelli)