Lennon, il ‘rivoluzionario pacifista’ per anni nel mirino di Fbi ed MI5  

Pubblicato il: 06/12/2020 16:25

“John Winston Lennon è un cittadino britannico ed ex membro del gruppo musicale dei Beatles”. Inizia così la lettera scritta nell’aprile del 1972 da J. Edgar Hoover, l’allora padre-padrone dell’Fbi ad un membro del dipartimento di Giustizia. L’informazione, decisamente banale, considerando che era riferita all’uomo che nel 1966 aveva dichiarato che “i Beatles sono più famosi di Gesù Cristo”, fa parte dei famosi ‘Files’ accumulati dall’Fbi nei confronti di Lennon, ritenuto un “rivoluzionario”, un riferimento del movimento pacifista e, soprattutto (anche se questo non è esplicitato nei files), un possibile ostacolo per la rielezione del presidente Richard Nixon.

A cinquant’anni di distanza dall’apertura del ‘Fascicolo Lennon’ e a quarant’anni dalla morte dell’artista, ucciso la sera dell’8 dicembre del 1980 davanti alla sua casa di New York da Mark Chapman, la lettura di questi documenti fa sorridere. Sia per la loro involontaria comicità, che per l’assoluta assenza di una qualsivoglia ‘minaccia’ Lennon, sia infine in considerazione dello sforzo e degli anni (25) che sono stati necessari per ottenerne la desecretazione definitiva da parte dell’Fbi nel 2006, dopo la prima richiesta presentata poco dopo la morte dell’ex Beatle.

Anni in cui si sono succeduti quattro presidenti degli Stati Uniti e tre primi ministri britannici, prima che a Washington (e a Londra) qualcuno acconsentisse a sollevare il velo sui documenti, ritenuti fino ad allora talmente fondamentali per la sicurezza nazionale che la loro pubblicazione avrebbe potuto “ragionevolmente portare ad una rappresaglia diplomatica, economica e miliare contro gli Stati Uniti”. Questa era infatti la motivazione con la quale i “Lennon Fbi Files” hanno continuato per decenni ad essere classificati come top secret. Resta il mistero su quale sia la potenza straniera che, di fronte alla loro pubblicazione, avrebbe potuto scatenare una tale “rappresaglia” contro la prima superpotenza mondiale.

La canzone che sembrava aver scatenato i sospetti di Hoover e dell’Fbi, al punto da considerare Lennon un pericoloso “rivoluzionario” con “simpatie marxiste” era ‘Power to the People’. Non certo un inno segreto da cantare in pericolose adunate sovversive, ma un singolo pubblicato nel 1971 con la ‘Plastic Ono Band’, tra i primi lavori solisti di Lennon dopo lo scioglimento ufficiale dei Beatles. Sempre scorrendo i ‘files’ (disponibili su Internet all’indirizzo https://vault.fbi.gov/john-winston-lennon), si legge che “dal 1972, John Lennon ha continuato di volta in volta a dare il suo sostegno a varie cause estremiste, ma non sembra essere legato a nessuna fazione”. La fonte del documento è “confidenziale” e si presume che provenga dall’MI5, i servizi di intelligence interna britannici.

E del resto, non era certo un segreto che Lennon avesse sposato la causa pacifista e si opponesse alla guerra in Vietnam e all’intervento militare britannico in Irlanda del Nord. Così come si sentisse vicino al movimento operaio dell’epoca, al quale dedicò la più che esplicita, ‘Working class hero’, contenuta sull’album del 1970 ‘Plastic Ono Band’. Senza contare che le sue convinzioni furono argomento di diverse interviste rilasciate all’epoca, oltre che la base per molte altre sue canzoni di quel periodo, prima fra tutte ‘Give Peace a Chance’, inno del movimento pacifista. Le stesse fonti “confidenziali” rivelavano all’Fbi che Lennon aveva fatto uso di droghe illegali e una volta era stato fermato in possesso di marijuana. Anche qui, non servivano certo i migliori specialisti di intelligence per intuire quello che era chiaro a chiunque avesse ascoltato con un minimo di attenzione il ‘White Album’ o ‘Sgt Pepper’s’ dei Beatles.

Ma la costanza con la quale l’Fbi, anche attraverso fonti “confidenziali” continuava ad assemblare materiale su Lennon – oltre che a tenerlo sotto sorveglianza – appare oggi disarmante. Anche in epoca pre Internet, la quantità di materiale pubblico disponibile sull’ex Beatle era enorme. Evidentemente, però, non abbastanza per quei funzionari dell’Fbi che riuscirono perfino a sbagliare l’indirizzo newyorchese dell’artista. E anche qui, sarebbe stato sufficiente chiedere a un qualsiasi adolescente dell’epoca per farsi indicare la strada per il Dakota Building, nell’Upper West Side. Per non parlare del manifesto ‘Wanted’ che venne preparato in caso di un possibile tentativo di arresto e di una conseguente ‘fuga’ di Lennon. La fotografia utilizzata non era nemmeno quella dell’artista, ma di un altro cantante rock con i capelli lunghi e gli occhiali che si chiamava David Peel.

A dispetto di tutti i tentativi di incastrare Lennon per droga, sedizione o qualsiasi altra accusa utile alla causa, l’Fbi (e nemmeno l’MI5) riuscirono mai a costruire argomenti legali minimamente spendibili in un tribunale. E’ probabile che in realtà l’Fbi e Richard Nixon, in corsa per la rielezione, più che dimostrare che Lennon era il fantomatico capo di una imminente rivoluzione, cercassero di ottenere (senza successo) un pretesto per espellerlo dal Paese. L’ex Beatle e la moglie vivevano negli Usa con un visto per l’immigrazione e, considerata l’influenza che Lennon aveva sugli elettori più giovani, questa poteva costituire un ostacolo per la riconferma di Nixon alla Casa Bianca.

A spiegarlo chiaramente, in un memo riservato inviato alla Casa Bianca e reso pubblico in una precedente desecretazione di documenti relativi a Lennon, fu il senatore ultraconservatore Strom Thurmond. L’espuslione di John Lennon e Yoko Ono, suggeriva Thurmond a Nixon, poteva essere una efficace “strategia di contro misura” nei confronti di un personaggio che puntava quotidianamente il dito contro il governo Usa per la guerra in Vietnam. E a conferma della pericolosità ‘strumentale’ di Lennon per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, c’è anche il fatto che l’ex Beatle smise di essere sorvegliato dall’Fbi dopo la rielezione di Nixon.

La lunga battaglia legale per la permanenza negli Stati Uniti è raccontata nel documentario del 2006 ‘The US vs John Lennon’, realizzato da David Leaf. Una battaglia che comunque influenzò l’atteggiamento di Lennon, che per non offrire pretesti e non rischiare l’espulsione dal Paese, smise di partecipare attivamente a sit-in e campagne pacifiste, interruppe ogni finanziamento a movimenti politici e, più in generale, si dette ‘una calmata’.

Ci sono voluti anni di richieste, il ripetuto ricorso al ‘Freedom of Information Act’ e un’infinita pazienza per ottenere la desecretazione completa del ‘Lennon Files’. Artefice del risultato fu un docente di Storia della University of California, Jon Wiener, che per l’intera vicenda coniò l’espressione, ‘Rock ‘n Roll Watergate’. Wiener ha scritto due libri per documentare i suoi sforzi, durati un quarto di secolo, nei quali ha fatto avanti e indietro per le corti federali, per abbattere il muro di segretezza che ancora circondava il materiale.

Come raccontò in un’intervista del 2006, l’intera vicenda “avrebbe dovuto essere chiusa nel 1981”, l’anno successivo alla morte di Lennon, pochi mesi dopo la prima richiesta di desecretazione da parte di Wiener. E del resto, più che sull’ex Beatle, sul quale i ‘Files’ non aggiungono nulla che non fosse già noto, l’intera vicenda ci racconta molto sul mondo dei ‘segreti ufficiali’ e di come, anche governi apparentemente ‘progressisti’, si comportino esattamente alla stessa maniera dei governi di segno politico opposto.

Dai ‘Files’ dell’Fbi emerge che gli Usa nel settembre del 1997, evidentemente anche loro stanchi del ‘segreto’, chiesero il permesso di rendere pubblici i documenti a un “governo straniero” che non viene nominato. Sicuramente la Gran Bretagna, che aveva fornito diverso materiale “confidenziale” per il dossier su Lennon. Il “governo straniero” si oppose, sostenendo che la segretezza era necessaria per evitare “gravi e dimostrabili danni alle sue fonti, che rimangono sensibili”. Alla guida di quel governo, da pochi mesi, si trovava il laburista Tony Blair, nuova ‘star’ della sinistra dell’epoca.

(di Marco Liconti)