Morte Raciti, Speziale: “Io innocente: quel giorno prima vittima fu ispettore, io seconda” 

(Adnkronos)

Sto bene ora, ma allo stesso tempo oggi è un giorno triste. 14 anni fa è morta una persona mentre stava facendo il suo lavoro e io sono stato accusato di essere il colpevole di un omicidio mai commesso. Da quel giorno la mia vita è cambiata per sempre”. A parlare all’Adnkronos è Antonino Speziale, tornato in libertà dopo aver scontato la pena di otto anni e otto mesi di reclusione con l’accusa di omicidio preterintenzionale dell’ispettore capo di polizia Filippo Raciti in seguito ai disordini allo stadio di Catania il 2 febbraio 2007. Speziale si è sempre dichiarato innocente e, proprio nel giorno dell’anniversario della morte di Raciti, lo ribadisce. “Ho pagato io, ma non c’entro nulla”.

“Mi guardo intorno e sono spaesato – confessa – ma vedo l’affetto delle persone che amo, della mia famiglia, dei miei amici e mi rendo conto di essere nuovamente un uomo libero. Questo mi fa stare bene. Due vittime quel giorno? La prima è sicuramente l’ispettore Raciti – ammette Speziale – strappato per sempre ai suoi affetti, la seconda, anche se in modo diverso, sono io. Una vittima di un errore giudiziario che mi auguro verrà chiarito presto. Se ho mai parlato con la famiglia Raciti? No, all’epoca ci provò mio padre – ricorda – ma non ci fu alcuna risposta da parte loro. A me interessa che sappiano come sono andate le cose”.

Speziale si sofferma poi sul programma televisivo ‘Le Iene’ che ha dato risalto alla sua vicenda. “Le ringrazio, perché hanno avuto il coraggio di mandare in onda quei servizi e fatto aprire gli occhi a tante persone – spiega – A chi mi ha giudicato e ora mi vede con occhi diversi. In molti si sono ricreduti, ho ricevuto tanta solidarietà. Adesso vado da uno psicologo che mi sta aiutando a riprendere fiducia in me stesso. Non è facile riprendersi la propria vita dopo 14 anni passati in carcere. Spero di ritagliarmi uno spazio mio, di lavorare, avere dei figli”.

Speziale parla anche del dramma della pandemia vissuto in carcere. “Il periodo più brutto – ricorda – bisognerebbe capire che durante il lockdown se si soffriva in casa, figuriamoci nelle patrie galere dove non potevamo abbracciare i nostri cari. Una stretta di mano, un abbraccio, niente. Una sofferenza incredibile, siamo uomini anche noi, anche se detenuti. Detenuti che, in uno stato civile, andrebbero aiutati a reinserirsi nella società e non emarginati. Lì dentro, soprattutto nel periodo Covid, ci sentivamo inferiori. Inferiori perché vedevamo entrare e uscire chi giustamente lavorava, medici, agenti, impiegati. Noi non potevamo abbracciare le nostre famiglie perché avrebbero portato il virus secondo loro. E chi entrava e usciva invece? Eppure si parlava solo delle rivolte, non che le giustifichi ovviamente, anzi, ma non c’è stato dialogo in quel momento. Speriamo di avere ora una seconda occasione…”