Quel monito di pace e tolleranza di Amos Oz al Taobuk Festival  

“E da più di sessant’anni, praticamente tutta la vita, insieme ad altri che la pensano come me, cerco una soluzione pacifica di compromesso al doloroso conflitto che affligge israeliani e palestinesi. Perché il rispetto della vita umana è una priorità irrinunciabile, questo è il mio credo”, diceva Oz.

Uomo di pace e tolleranza, anche a Taobuk lo scrittore Amos Oz ha manifestato il problematico rapporto con la fede: “Non credo in Dio, ma ne ho paura. Sono nato a Gerusalemme, ma ne so quanto voi di Dio, non so se si tratti di un lui o una lei, ma secondo me non è un grande amico dell’umanità. Non so darmi altra risposta se penso a quanto la nostra vita sia piena di dolore, sofferenza, ingiustizie, orrore. Allora mi è molto difficile pensare alla figura di questo Dio buono: dite quello che volete, ma mi spaventa e terrorizza da morire”.

Ed ecco che il pensatore svela il narratore, che da bambino sognava di diventare un libro, come scrive in “Una storia d’amore e di tenebra”: “Sono nato nel lontano 1939 e mi rendevo conto già da piccolo, tra gli orrori della guerra, che intorno a me morivano non solo gli adulti ma anche i bambini. E allora ho pensato che fosse decisamente una cosa più sicura se avessi avuto la possibilità di crescere diventando un libro: è vero pure che i libri si possono distruggere così come si può privare gli esseri umani della vita, però può darsi magari che una coppia superstite sopravviva in una remota libreria a Reykjavik, San Paolo, Tokyo. Ma adesso che sono cresciuto sono felicissimo di non essere diventato un libro e trovo più piacere nel vivere da essere umano, è molto più eccitante. Certo vuol dire anche provare dolore e scontento, però perlomeno non ho passato il novanta per cento della mia vita dimenticato su uno scaffale coperto di polvere! Poi vi voglio confidare un segreto e per quale ragione mi considero un narratore: quando avevo cinque anni ero gracile e quindi piuttosto lento, non sapevo cantare, non sapevo danzare, non ero proprio il massimo negli sport. Dall’ asilo in poi, per tutta la durata della scuola, l’unico modo che avevo per attirare le ragazze era raccontare loro delle storie. Ho capito presto che narrare è l’azione umana più antica del mondo, più antica della letteratura, dei romanzi lunghi e brevi, della tradizione orale, della ricostruzione dei fatti storici”.

E ancora: “Già al tempo delle caverne i primitivi usavano elaborare racconti, immaginate l’atmosfera, le grotte di notte, illuminate solo dalla luce del fuoco, immaginate questi esseri, seduti intorno ai legni ardenti, mettere a disposizione degli altri la propria fantasia e raccontare esagerando la realtà, o elaborando i loro sogni. Se mi chiedete a quando risale la narrazione, secondo me è assai più antica addirittura della sessualità umana, che si differenzia da quella animale perché coinvolge e riguarda sempre una storia, se non addirittura una fiaba, nel senso che spesso noi attiriamo il nostro partner con racconti che affascinano la sua testa. E quindi il narrare è addirittura più antico di quanto non lo sia la sessualità nell’uomo”.

C’è una compenetrazione tra i romanzi di Oz e i suoi saggi. A fare discutere di più è stato sicuramente “Cari fanatici”, in cui si analizza un fenomeno che oggi sembra investire tanti piani della nostra esistenza, in una società polarizzata, in cui le opinioni contrapposte non si confrontano ma si scontrano in un clima di intolleranza. “Il fanatismo – rimarcava infine Oz – è davvero la cosa peggiore che ci ha portato il nostro tempo, non si colloca semplicemente fra i gruppi di fanatici islamici, ma c’è un gene del fanatismo presente in ogni singolo essere umano e dobbiamo prenderne coscienza, sia che si tratti di religione, sia che si tratti di ideologia o di qualsiasi altra tematica, dal femminismo al nazionalismo all’arianesimo, ivi compreso tutto quello che riguarda i risvolti sessuali della nostra vita. Sono assolutamente sicuro che Stalin e Hitler, nonostante non penso volessero farci questo regalo, hanno suscitato il nostro disgusto per i loro metodi, una reazione positiva che per cinquanta, sessant’anni ci ha liberati dal coltivare sentimenti di fanatismo, razzismo, violenza. Questa sorta di trauma “pacifico” è stata la conseguenza di quello che loro hanno perpetrato, ma tale effetto è arrivato ad una data di scadenza e le nuove generazioni ne sono immuni, poiché non hanno vissuto gli orrori del fanatismo di nazisti o bolscevichi”.

E concludeva: “I giovani stanno quindi crescendo con un’inclinazione al fanatismo che si estende a parecchie problematiche e tendono a paragonare le responsabilità di un genocidio a quelle di coloro che si nutrono di carne, fino a contestarli con manifestazioni abbastanza violente. Ricordiamoci sempre che c’è questo gene silente dentro di noi, questo piccolo fanatico dormiente. Se mi fosse data la possibilità, creerei un antidoto, una pastiglietta del buonumore, giacché non ho mai visto un fanatico rendersi conto di cosa sia sentirsi allegro e ben disposto verso gli altri. Allora potrei accettare, se non il premio Nobel per la Letteratura, almeno quello per la Medicina, dal momento che questa pastiglietta sarebbe un grande servizio reso all’umanità”.